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“Songs Of Leonard Cohen”, estrarre lo splendore dalla miseria

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All’alba degli anni sessanta, Marianne Ihlen e Leonard Cohen si conobbero sull’isola greca di Hydra, nel Peloponneso: lei era il sole, lui la luna. Lei era bellissima, gli occhi che rilucevano di una moderata infelicità, un marito in fuga, un bambino di sei mesi da crescere e la ricerca di un bagliore di luce in un cielo di assenze e stelle semispente. Lui, un giovane poeta e romanziere dal cuore di tenebra alla ricerca di un balsamo per sciogliere il grumo dolente di malinconia che gli chiudeva la gola.

Restarono insieme per sette anni, dopodichè la fame di libertà di Cohen lo portò ad inseguire altre promesse di felicità e a rimboccare le lenzuola di cento altre amanti.I due rimasero comunque amici, e Cohen riversò spesso il ricordo di Marianne Ihlen nelle sue composizioni, a cominciare da So Long, Marianne, un caffè amaro con l’orlo della tazza cosparso di miele, una delle più belle canzoni su un addio mai scritta, un valzerone che spremeva la bellezza dagli ultimi rantoli di un amore.

So Long, Marianne era una delle dieci canzoni che componevano l’album d’esordio di Leonard Cohen, col senno di poi divenuto il libro del catechismo per l’angoscia sottile dei mille e passa cantautori da giorni di pioggia arrivati dopo. Dentro “Songs Of Leonard Cohen” c’era la docile  inquietudine di un beatiful loser che frugava nella tragedia del mistero umano per cercarne lo splendore, e quello che ne usciva rimbombava di intimità sussurrate e dolori trattenuti. “Songs Of Leonard Cohen” era un inno alla sconfitta, il vademecum per vivere da perdenti, dolce come una ninnananna, spietato come gli occhi della memoria, una traversata sull’Acheronte del proprio io interiore col solo riparo della poesia.

Proprio mentre le tribù della summer of love accendevano fuochi e predicavano la visione comunitaria della musica e la sua potenza aggregatrice, Leonard Cohen spegneva le luci, accendeva le candele e intonava salmi alla solitudine e al suo valore consolatorio. “Songs Of Leonard Cohen” indugiava malinconicamente sull’eterna lotta tra gli opposti, tra lussuria e trascendenza, tra carnalità e misticismo, il tutto al ritmo sconsolato di un’elegia funebre. Suzanne era uno stato d’animo, prima che una canzone, idealizzazione commossa di un’ipotesi di donna infarcita di cori soavi e metafore religiose. L’anima torturata di Cohen trovava rifugio nell’ evocazione limpida e accorata di un rapporto platonico: negli anni, l’avrebbero eletta a stella polare del loro vagabondare nel mistero dell’amore artisti come De Andrè, Nick Cave, Mark Eitzel e Jeff Buckley.

In pezzi come Master Song e Winter Lady la voce fumosa di Leonard Cohen sembrava arrivare da un pozzo di mestizia, e il tono colloquiale e narrativo ne esaltava la desolazione. La strumentazione era scarna, ridotta all’osso ma perfettamente intonata agli umori del cantautore di Montreal. Erano canzoni da vento alla finestra, e annunciavano l’arrivo di un moderno aedo in abito elegante, un Re Mida del verso, vagabondo per scelta e condanna, a sua volta ispiratore di cantastorie e poeti. Erede della disperazione degli chansonnier francesi più che delle visioni di un Dylan, il canadese travasava nelle sue ballate travagli religiosi e ossessioni carnali , pietà e misericordia, parabole bibliche e crudo realismo, e Sister Of Mercy, Stories Of The Street e Hey That Way To Say Goodbye erano saggi sulla solitudine e la fragilità.

Con “Songs Of Leonard Cohen” il poeta canadese aveva già trovato la sua voce, quella voce che ne accompagnerà la ricerca della luce nella parola fino all’inizio del nuovo viaggio, avvenuto il 7 Novembre del 2016. Qualche mese prima, Leonard Cohen ricevette la notizia che Marianne Ihlen stava perdendo la battaglia contro la leucemia in un letto d’ospedale, e le scrisse la sua lettera d’addio:

«Carissima Marianne, sono solo pochi passi dietro di te, ma abbastanza vicino da stringerti la mano. Questo mio vecchio corpo, così come il tuo, ha ormai rinunciato a combattere e, da un giorno all’altro, sto aspettando che mi arrivi l’avviso di sfratto… non ho mai dimenticato il tuo amore e la tua bellezza. Ma questo tu lo sai, non devo aggiungere altro. Fai buon viaggio amica mia, ci vediamo tra poco in fondo al viale… con amore e gratitudine”.

Mentre gliela leggevano, con quel poco di voce che gli era rimasta Marianne Ihlen cantava Bird On The Wire.

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