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Travis Duo – Hypnagogia

2021 - Autoproduzione
avant jazz

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Tracklist

1. Uchouten / Sab Kuch Milega
2. FAQ (feat. Daniel Carter, Sean McCaul, Devin Brahja Waldman & Niko Wood)
3. Orchid Hoodwink (feat. Sean McCaul)
4. Fair Weather Friend / Ode to Ernie Washington
5. Hitherto (feat. Daniel Carter)
6. UnCanny Valley (feat. Devin Brahja Waldman)
7. Folie à Duex (aka 'Lonely Woman')


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Me l’ha detto qualche mese fa in un’intervista (questa qui), Trevor Dunn, che gli artisti continueranno ad esprimersi finché un meteorite non ci investirà tutti e tanti saluti al secchio, e lui non è tipo da smentirsi, quindi prima che il 2021 chiuda definitivamente i battenti eccolo tornare ad esprimersi, da artista qual è.

Nemmeno qui è solo, perché Travis Duo è l’accrocchio nominale che lo vede fondersi assieme a Jarvis Earnshaw e quello che ne viene fuori è puro godimento. Absolutely free. Schizoide, bello, brutto, tonale e atonale, sonante e dissonante e via così, finché non avrò finito le cazzate da dire. Earnshaw suona il sitar e dice che a 13 anni, mentre cresceva in Giappone, lontano dalla natia Londra, è stato investito da un pezzo intitolato Travolta di una band chiamata Mr. Bungle e da allora la sua vita è cambiata. Oggi eccolo assieme a colui che Travolta la scrisse. Lo spirito continua, dicevano quelli là. Lo spirito muta, dico io, ma resta inalterato.

Ed ecco qui, un disco che pare una performance, anzi, lo è, come quelle in cui entrambi saranno finite mille volte, un altare di musica differente e perversa, nel senso che ancora una volta si perverte ciò che musica è, pur non facendo altro che seguirne il flusso, uno dei tanti che formano le sue miriadi di spire. Sembrano cose perdute, quelle che si palesano in “Hypnagogia”, un crocevia di generazioni, tempi e generi come lo definisce Jarvis, un luogo in cui si riuniscono molti di coloro che la musica non-allineata l’hanno modellata: Daniel Carter (che può vantare di aver suonato sia con Sun Ra che con i Sonic Youth, e va bene), Devin Brahja Waldman (il cui sassofono è in scuderia Constellation ed è stato toccato pure da Lydia Lunch), Sean McCaul (uomo della corte di sua maestà Philip Glass), Niko Wood e poi ancora un altro nome da poco ovvero Martin Bisi che da dietro il mixer ricuce il suono con ago e filo passati nelle trame del mondo al di là della norma.

Sembra di stare in un altro posto, un altro luogo, con altri ascolti nelle orecchie, quando il jazz ancora si trasformava in deliri polimorfi e melodia e ritmo non erano che concezioni astratte, non incasellabili. La voce e le corde di Jarvis si scontrano con il contrabbasso di Trevor, il legno è consistente anche attraverso le casse, il rumore una componente essenziale del tutto (Feldman, Cage e tutti questi signori che già lo dissero e ancora oggi si ribadisce), componendosi si disassembla mentre nastri sfiammano sullo sfondo. Pare che poi tutto si squagli e i bordi diventino semplici convenzioni da demistificare, complici i fiati che possono colpire ai fianchi o insinuarsi lentamente e risalire la ripida montagna d’oriente per appoggiarsi in plateaux ipnotici (il titolo non è un caso, non è mai un caso), cantando l’allucinazione per quello che è, facendo punk col jazz e jazz col punk, quando quest’ultimo è solo un’idea, come dovrebbe essere. Deliri mistici e anomalie si accompagnano gli uni le altre in un’irrealtà che si forma già spezzata e giù giù fin dove non c’è più luce.

E una volta noi che questa roba, qualsiasi roba essa sia, sapevamo dove trovarla, ossia ovunque, perché c’è stato un momento – a dire il vero ce ne sono stati un sacco – in cui la trovavi nei luoghi più disparati senza che si conformasse (salvo poi farlo, ma non qui, non loro, mai), e ora non sappiamo più dove sbattere il grugno, beh, ora un posto ce l’abbiamo, ed è nella stanza assieme al Travis Duo, a ondeggiare la testa alleggerita con una tonnellata di rumore pesante che pesante non è.

Ondeggiate, gente, ondeggiate.

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