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Interviste

Shoegaze, grunge ed etica DIY: intervista agli October Drift

Photo: Blackham Images

Abbiamo incontrato gli October Drift, band originaria di Taunton, Somerset, nell’Inghilterra sud-occidentale, attualmente impegnata in un tour europeo. La band, fondata nel 2015, è da poco tornata con il nuovo singolo Airborn Panic Attack, a poco più di un anno di distanza dall’ultimo album “Forever Whatever“.

Siete una band praticamente dai tempi della scuola superiore: quanto vi ha aiutato a pensare e crescere come musicisti e come collettivo?

Siamo più grandi della somma delle singole parti: conosciamo i punti di forza e le debolezze di ciascuno di noi. Non siamo davvero bravi con i nostri strumenti, ma abbiamo quella chimica che può essere trovata soltanto suonando insieme per tanto tempo.

Nel leggere un po’ la vostra biografia, qualcuno potrebbe associarvi a un periodo storico diverso da questo, per alcuni motivi. Penso, per esempio, al fatto che abbiate rinunciato a lungo ai social, preferendo cercare di costruirvi una certa reputazione solamente suonando live. Ci spiegate il perché di questa scelta?

Odiamo davvero che, soprattutto all’inizio, gli artisti vengano visti solo come un numero. Potresti anche non essere mai ascoltato: sei solo un numero di stream, un numero di follower. Abbiamo sempre fatto le cose a modo nostro, alle nostre condizioni. Lanciando questa band in quel modo, abbiamo stabilito quelle regole. Abbiamo riempito le sale concerto di tutto il paese soltanto grazie al passaparola, ma dopo circa un anno abbiamo dovuto stringere i denti e lanciare i social media: gli aspetti negativi del non avere i social media hanno iniziato a superare gli aspetti positivi ed è diventato una sorta di male necessario per la crescita e il successo della band. Penso che tu abbia ragione però: il nostro metodo di “saltare nel furgone” e suonare il più possibile ha le connotazioni di un’epoca passata.

In ogni caso, la scelta ha pagato: il vostro primo tour è andato sold out nonostante non aveste pubblicato alcun singolo. Come vi rapportavate alla crescita dell’hype nei vostri confronti, pur senza materiale in studio?

È stato eccitante. Molte persone non sapevano da dove venissimo o chi fossimo, in effetti ha davvero colpito alcune persone. La rivista “Q” ha fatto un articolo sul nostro primo singolo, quando l’abbiamo pubblicato: sembrava una gran cosa, era piuttosto surreale. Siamo estremamente grati per tutto il supporto che riceviamo dai fan, non lo diamo per scontato. Penso che questo arrivi con anni di concerti, o di “baci al pavimento”, come dice il nostro ingegnere del suono Francis. Prendiamo alti e bassi, non crediamo all’hype. Il supporto può esaurirsi in qualsiasi momento, quindi ci godiamo i bei momenti e continuiamo a nuotare.

A tal proposito, si parla benissimo di voi sul palco: sentite che il live sia la vostra dimensione naturale?

Ci consideriamo ancora prima di tutto una band dal vivo. Penso che sia così che veniamo digeriti in modo più efficace, dal punto di vista del consumatore. Viviamo anche per i concerti, è da lì che traiamo la nostra linfa vitale. È così che siamo cresciuti e abbiamo costruito una base di fan davvero solida e underground, attraverso il passaparola e i live. È stato un processo molto organico.

Sempre a proposito di un approccio alla musica forse non più troppo comune di questi tempi, la vostra è un’etica puramente DIY: avete il vostro studio e molto del vostro merchandising è fatto a mano. Cosa potete dirci a riguardo?

Non c’è davvero una scena musicale da cui proveniamo, quindi dal primo giorno abbiamo dovuto viaggiare per il Regno Unito per i concerti. Facevamo le cose da soli e le facciamo ancora. Realizziamo i nostri video musicali, ci registriamo. All’inizio producevamo anche molto del nostro merchandising. Non abbiamo un manager, anche se prendiamo in considerazione e ascoltiamo la gente di cui ci fidiamo, siamo sempre molto grati per il loro contributo e il loro aiuto. Anche il nostro rapporto di lavoro con Phys Ed, la label con cui lavoriamo attualmente, è piuttosto unico. Noi andiamo avanti con le nostre cose e sotto la loro guida. Justin ci presterà telecamere o microfoni e via. Improvvisando.

Quanto alla proposta musicale, il vostro sound sembra essere il punto di incontro fra lo shoegaze britannico e il grunge americano: con quali artisti siete cresciuti? E quali hanno artisti hanno influenzato maggiormente la vostra scrittura?

Sono cresciuto con molta della musica dei miei genitori: i Beatles, Bob Dylan, David Bowie, i Queen, tutti hanno avuto un certo impatto su di me. Avevamo dei VHS con registrazioni di puntate di “Top of the Pops” e dei Queen in concerto a Wembley, li ho guardati un sacco di volte! “(What’s The Story) Morning Glory?” (Oasis) e “The Bends” (Radiohead) sono due dischi pubblicati quando ero piccolo e che mio padre aveva: non so se saremmo stati la stessa band senza quelle influenze. Mia sorella mi diede una cassetta di “Unplugged in New York” dei Nirvana, sempre quando ero molto piccolo. “Nevermind” dei Nirvana e “By The Way” dei Red Hot Chili Peppers sono stati i primi due album che ricordo aver comprato da solo. Smashing Pumpkins, Radiohead, Nirvana e i National hanno avuto, probabilmente, maggiore influenza su di noi.

Photo: Blackham Images

In “Forever Whatever”, comunque, si sentono un po’ anche i National, in una versione molto più elettrica e guitar-oriented. Penso a “Losing My Touch” o “Milky Blue”, in particolare. Che rapporto avete con la band di Matt Berninger?

C’era un negozio di dischi in città, si chiamava Black Cat Records. Bazzicavamo molto quel posto quando eravamo al college: bevevamo tè e discutevamo col proprietario, un grande uomo di nome Phil. Ci ha aperto a molta musica nuova e ogni tanto, quando avevamo abbastanza soldi, compravamo un disco. Ho preso “High Violet” dei National da lui in quel periodo e mi sembravano la band che stavo cercando. Siamo tutti legati alla loro musica: dire che ci piacciono sarebbe un eufemismo. I National hanno avuto un enorme impatto su di noi, forse più di qualsiasi altro artista o band.

In molti casi, invece, ciò che emerge è il vostro amore per tanta musica degli anni Novanta. Vi sentite, musicalmente parlando, legati a quel periodo?

Lo siamo. Come dicevo, band come i Radiohead, gli Oasis e i Nirvana mi hanno colpito parecchio quando ero piccolo (e lo fanno ancora). Siamo arrivati più tardi agli Smashing Pumpkins, ma anche loro sono stati importanti per la nostra musica. Dobbiamo molto anche a band più shoegaze come i My Bloody Valentine, i Jesus and Mary Chain e i Sonic Youth, per esempio per le accordature strane e le enormi quantità di riverberi e distorsioni.

La stampa di settore ha accolto molto positivamente il vostro album di debutto. Sentite un po’ la pressione delle aspettative che si alzano o non temete la sfida?

Il nostro debutto è stato accolto da recensioni molto positive, è molto bello. Non avvertiamo la pressione di essere all’altezza del nostro album d’esordio, comunque. Amiamo il nostro primo disco e ne andiamo fieri, ma vogliamo guardare avanti, non indietro. Le circostanze ci hanno concesso parecchio tempo per scrivere e registrare il nostro nuovo album e pensiamo di aver fatto un buon lavoro al riguardo. Album 3 sta già venendo su bene. Se devo essere onesto, le recensioni positive sono una gran cosa, ma non è la ragione per cui facciamo musica. Facciamo musica per noi stessi e per i fan: se piace anche a un recensore è un bonus. Non siamo preoccupati dalle aspettative che crescono: il meglio deve ancora venire.

Per una band nata sui palchi, com’è stato vivere l’astinenza forzata dai concerti? Per noi è (stato) bruttissimo, immaginiamo per voi…

È stata dura. Ho fatto molti live stream da casa mia, in isolamento. Era un po’ come il metadone per un tossicodipendente, ha funzionato per un po’, ma poi non bastava più. Era bello avere un piccolo set su cui lavorare, penso che anche le persone a casa li apprezzassero e questa era la cosa più importante. Abbiamo fatto un tour con distanziamento sociale a maggio, con i primi concerti dal vivo dopo oltre un anno. È stato fantastico suonare di fronte a persone reali ed eravamo entusiasti di alcuni concerti, ma era comunque strano avere persone sedute e distanziate. Ha reso più speciale ogni data del tour che abbiamo appena terminato, con sale completamente esaurite e senza restrizioni. Abbiamo organizzato un tour nel 2020 e uno vero e proprio nel 2021. Siamo stati comunque fortunati a poter scrivere e registrare, quando non eravamo in tour.

L’Inghilterra e il Regno Unito rappresentano una realtà musicalmente sempre molto vivace. Fra i vostri colleghi più giovani, c’è qualcuno che apprezzate particolarmente?

Avevamo una band chiamata Junodef in tour con noi: sono fantastici, è stato bello condividere date con loro. Di recente, abbiamo scoperto A Festival, A Parade e Wych Elm. E i Black Foxxes: io e Chris siamo andati a trovarli al “The Louisiana” a Bristol l’altro giorno e sono stati grandi. Dan ha registrato e fatto una sessione per i China Bears, recentemente: con loro abbiamo suonato un sacco di volte, sono fantastici. Ho visto anche i Glasgow Vlure un paio di volte quest’anno: sono assolutamente una band da vedere. Aspetto con ansia anche l’album dei King Hannah.

Si dice spesso che il rock non goda di buona salute in questo periodo storico, eppure realtà come la vostra sembrano smentire questa affermazione. Cosa ne pensate? Sentite di essere fra i pochi baluardi di questo ambiente?

Immagino dipenda un po’ da come intendi la buona salute. Certamente ci sono meno soldi rispetto a quanti ce ne fossero prima, non che i soldi siano mai stati la nostra forza trainante (se lo fossero, non saremmo arrivati così lontano!). Facciamo tutti un secondo lavoro, credo che non fosse così in passato. Ma ci sarà sempre pubblico per il rock. Le mode vanno e vengono. Questo potrebbe significare meno musica rock nelle radio o nella stampa, quindi al momento magari siamo un po’ contro questa tendenza. Sono sicuro che il vento cambierà, prima o poi: non puoi controllare i fattori esterni e noi abbiamo rinunciato da tempo a provare a seguire questo tipo di trend. Credo che si debba essere fedeli a se stessi e fare le proprie cose, così le persone apprezzeranno, perché lo troveranno sincero, genuino. Ci sono forse solo una dozzina di band come noi, che saltano su un furgone e vanno in tour per il Regno Unito tanto quanto noi, quindi immagino che siamo fra i pochi a incarnare quello spirito e quella tradizione. Forse faremo tornare il rock in buona salute! Scherzo, non è mai stato questo l’obiettivo: siamo piuttosto concentrati su noi stessi, sul fare le nostre cose. Facciamo anche fatica a vederci come una tipica rock band. Se fai troppa attenzione a ciò che fanno gli altri, corri il rischio di perdere di vista la tua identità, i tuoi obiettivi e i tuoi valori personali.

Grazie per averci dedicato un po’ del vostro tempo, non vediamo l’ora di venire a pogare ai vostri concerti!

Photo: Blackham Images

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