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Back In Time

“The Modern Dance” dei Pere Ubu, o di quando moderno significa macabro

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Un sibilo fastidiosissimo, una radiazione pericolosa (3 secondi), qualche accordo di basso, non lo sai identificare quel basso, è buono? è cattivo? ci possiamo fidare? (21 secondi), entra a gamba tesa un schitarrata rock ‘n roll senza un motivo, sfacciata, ignorante, ed eccoci qua, batteria (34 secondi), si balla ragazzi, ci si muove di brutto, sei ancora stordito che ti assale alla gola David Thomas, questo gigante buono dalla voce nasale, che blatera fortissimo: «’Cause our poor boy/Believes in chance/He’ll never get the modern dance!». Si danza sulle dune del deserto deindustrializzato della Cleveland degli anni Settanta, città in declino, un tempo capitale dell’industria dell’acciaio statunitense, arricchitasi con la guerra e mai riconvertita. Si danza lungo le sponde dell’inquinatissimo Cuyahoga River. Se la danza è tale, allora è un rito ancestrale, ma questa è una danza moderna, è una danza grottesca.

The Modern Dance sembra la storia di una vita, con tutte le sue oscillazioni improvvise, espressa attraverso gli inviluppi di frequenza delle tastiere di Ravenstine: «un rumore che sembrava una latta da due chili piena di bombi», dice Krauss, il batterista, «poi cambiava l’onda sinusoidale e sentivi una spiaggia piena di gente. Dieci secondi dopo, un carro merci». Nel fotoromanzo ermetico del nostro tempo c’è spazio per stoviglie in frantumi, stracci di voci, squarci di synth, goliardia a claustrofobia. Da Non-Alignment Pact a Humor Me, sei come la scimmia di fronte al monolite liscio e nero dell’oltremondo, tragicamente attratto dalla sua pericolosità.

È il teatro dell’assurdo fatto in musica, loro stessi, i Pere Ubu, si definivano «avant-garage» o «folk industriale», divisi letteralmente a metà tra intellettualismo e carro armato. Lo stesso nome è un progetto artistico, dal despota di Ubu re, il dramma di Alfred Jarry, mostruosamente crudele e dedito a imprecazioni scatologiche: «Padre Ubu, capitano dei dragoni». Il Macbeth dell’era post-industriale, dei rifiuti tossici, «non siamo un bello spettacolo», dichiara in un’intervista Thomas, novello re Ubu dell’era moderna. Il viaggio sentimentale (Sentimental Journey) di David Thomas è un concerto per fiati e bicchieri spezzati, la recita di una sbornia, strappato il velo dei jokes rimane lo smarrimento e l’angoscia: «Outside/Monoxide/Inside/Paradise/Window/My size».

Teatrali sono le tecniche narrative, il montaggio, il cut-up musicale su più piani nello stesso brano e tra i brani stessi lungo tutto l’album, rimandi interni stranianti. Lontani dalla violenza analfabeta del punk inglese, i Pere Ubu guardano all’accademia, cercano un linguaggio letterario: collage, dadaismo e primitivismo. I Pere Ubu sono espressione di quello che Slavoj Žižek chiama «il trash sublime», apologia dello schifo, il trionfo del kitsch, la raffinatezza dell’essere una baraonda. Perché unire free-jazz, industrial, funky, boogie, è un caos, un melodramma postmoderno in poco più di mezz’ora.

Mi imbarazza scrivere di un album come “The Modern Dance” dei Pere Ubu. Lo ascolti, e basta. È una cosa, un’impossibile cosa. Te lo ascolti, ed apri il vaso di Pandora. Dici: ecco la musica, è questa la nostra musica (ma sarà poi vero?), sai che non puoi prescinderne, hai la selva oscura intorno. Mi imbarazza terribilmente, parlare di “The Modern Dance“, è come fare la parafrasi di una poesia, un eterno fallimento. “The Modern Dance” lo puoi solo ascoltare e, se sei coraggioso, insieme agli scheletri e ai demoni personali, fare qualche passo di questa danza macabra.

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