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Wovenhand – Silver Sash

2022 - Glitterhouse Records
gothic country / post punk

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Tracklist

1. Temple Timber
2. Acacia
3. Duat Hawk
4. Dead Dead Beat
5. Omaha
6. Sicangu
7. The Lash
8. 8 Of 9
9. Silver Sash


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Per personalità della specie di David Eugene Edwards il tempo è mero accessorio, o meglio, uno strumento e se lui e il chitarrista Chuck French hanno ritenuto necessario impiegare quattro anni per imbastire l’intelaiatura di “Silver Sash” è perché era giusto che il tempo avesse un suo peso specifico per formarne ogni tassello, levigarlo fino ad ottenere una forma non solo soddisfacente, piena e compiuta. La forma di un serpente argentato.

L’ultraterreno, nella dialettica edwardsiana, è da sempre punto focale e snodo ultimo attraverso cui le composizioni di Wovenhand trovano alveo, riparo ma anche trincea e dolore e questo è il gradiente immutabile perché le loro creazioni si palesino. Ancora una volta, e ancor più che in precedenza, Edwards dimostra la sua innata abilità nel piegare al servizio suo e della sua penna le spire temporali della Storia e del Mito, religione e filosofia, in un unico punto riconoscibile, come un marchio biblico fatto di corde irrorate di sangue e distorsioni. E bibliche sono le parole forgiate, ma le fila vengono tirate da punti distanti del pianeta, dalle antiche popolazioni del Centro America, ai nativi americani fino all’Antico Egitto, come il risultato alchemico di uno studio che non sembra avere fine. Lunghe preghiere di irrealtà che si fanno esperienze palpabili.

Silver Sash” è pesante nell’accezione tale per cui un disco può penetrare come una spada fiammeggiante a fondo nella carne fino a trovare l’anima. Questa pesantezza ha un suo momento chiave ed è affiato all’opener Temple Timber, l’Arca dell’Alleanza che viaggia nello spazio e passa di mano in mano, e il cui itinerario è battezzato da un furore elettrico tanto carnale da sprofondare nel doom più arcigno e oscuro. Il percorso è costellato da tappe di durezza in cui la melodia ha una sua ampiezza e consistenza, si intarsia nelle spirali post-punk granulose di Acacia (e ancor più in quelle ferali di Sicangu), che nel suo essere sottilmente venata di elettrogenesi sponda delle chitarre taglienti vengono incorporate in un discorso che continua a riverberarsi fino alle porte minimali della title-track e nella strisciante The Lash, mantra sintetici capaci di rendere immateriale la ferocia.

Nel mondo al di là di questo, a metà strada tra l’ormai meta irraggiungibile paradiso e Sheol, il regno dei morti, passaggi di polvere stellare come Duat Hawk (forse il modo di rappresentare il Ba egizio delle popolazioni native?), acida e dolciastra distesa Americana, impreziosita da pieghe acustiche che aprono le porte al r’n’r filtrato garage delle spedite Omaha e Dead Dead Beat, uno sprazzo di vera umanità incastonato tra preghiere sospese a mezz’aria, come nuvole cariche di terrore.

In mezz’ora scarsa di incarnazione Wovenhand sa creare un Big Bang il cui innesco è prepotenza poetica, una venatura argentea nel cuore di un gigante di pietra, diretta e perforante, carica di riferimenti a culture che paiono distanti ma che hanno in comune un filo diretto con l’anima.

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