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“I”, la macchina del tempo di Peter Gabriel

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Se si studiasse a fondo il funzionamento delle rock band, ci si accorgerebbe che probabilmente non ce ne sono due uguali nella storia. Strumenti e canto a parte, sono innumerevoli i compiti che i singoli membri devono svolgere dietro le quinte: composizione, testi e arrangiamenti per considerare solo gli aspetti prettamente musicali; ma anche promozione dei dischi, organizzazione dei concerti, rapporti con gli impresari, dimenticando sicuramente qualcosa. A fine novembre del 1974 i Genesis sono all’apice del successo. Hanno da poco sfornato “The Lamb Lies Down On Broadway” e sono partiti per un tour promozionale che sfoggia numeri da record: 2 continenti, 15 paesi raggiunti, 104 concerti durante i quali si alternano 3 diverse scenografie per un totale di oltre 1400 diapositive proiettate sullo sfondo.

Parliamo dei Genesis, ma per gran parte dello show è Peter Gabriel a prendersi la scena. Quello che ormai è il leader per acclamazione ha curato i testi e gran parte della musica di quel meraviglioso disco. Dal vivo sfoggia i suoi iconici travestimenti, canta, suona e intrattiene il pubblico, contravvenendo alla regola non scritta della divisione dei compiti. Da fuori sembra un idillio, ma è l’anticamera della fine. Da mesi circolano voci di dissidi interni alla band, rumors che si rincorrono fino alla pubblicazione della celebre lettera che Peter in prima persona scrive alla rivista Melody Maker: è tutto vero, Gabriel lascia i Genesis

Oltre al palco, a detta degli altri compagni di viaggio il frontman è diventato una sorta di one-man-band. Le loro idee vengono accantonate se non si incastrano con lo schema che lui ha in mente. Nondimeno, a Tony Banks e Mike Rutherford non è andato giù che Peter si sia visto – senza consultarsi con gli altri – con il regista William Friedkin, allo scopo di scrivere una sceneggiatura che peraltro non finirà mai in un film. Gabriel prende quindi come una ripicca l’eccessiva concentrazione che il resto della band si impone in occasione dei lavori per “The Lamb”. La pubblicazione del doppio LP è a un passo quando la sua prima moglie, Jill Moore, affronta non pochi problemi nell’ultima fase della gravidanza della loro secondogenita Anna. La bimba nasce in mezzo a notevoli difficoltà e Peter compie una scelta da padre, rimanendo con la sua famiglia per il maggior tempo possibile. Atteggiamento che non piace a Phil Collins e soci, i quali lo incalzano affinché torni al suo lavoro in breve tempo. È in quel momento che si consuma la rottura definitiva, celebrata al termine degli ultimi concerti dei Genesis dal suo oboe che intona The Last Post, una composizione militare dedicata all’addio e al ricordo di un commilitone caduto in battaglia.

Al termine di quel tour, alla fine di maggio del 1975, Peter Gabriel chiede solo di scendere dall’ottovolante e riposare. Fortunatamente Anna migliora – oggi è un’affermata fotografa, regista e scrittrice – così pian piano il singer londinese si rimette in moto anche dal punto di vista musicale. Alcune idee ci sono già, manca (ovviamente) il materiale umano. Peter ha bisogno di rimettere ordine nella sua vita artistica, l’esigenza adesso è mettere in fila tutto il materiale che ha in testa e su carta: l’uomo in grado di far prendere vita a quelle scartoffie è Bob Ezrin

Produttore di “Berlin” di Lou Reed, uno dei primi a credere agli Aerosmith, deus ex machina di quella bomba commerciale che fu “Destroyer” dei Kiss, Bob ha un suo artista feticcio: si tratta di Alice Cooper, per il quale a dato vita al meglio della prima parte della sua produzione, da “Love It To Death” a “Killer”, da “Billion Dollar Babies” a “Welcome To My Nightmare”. Ezrin è l’uomo giusto perché Peter ha un debole per Alice Cooper, tuttavia in cambio l’ex leader dei Genesis vuole i musicisti che ha in testa, non uno di meno. 

I pezzi grossi arrivano dritti da un’altra band – anch’essa di Londra – che Peter ama tanto: i King Crimson. Dalle macerie del castello di Re Cremisi vengono fuori sua maestà Robert Fripp (chitarre e banjo) e il suo fido scudiero Tony Levin (basso e tuba). Alle tastiere, oltre a Jozef Chirowski, Gabriel vuole con sé Larry Fast, rivoluzionario nell’uso del synth con il suo progetto Synergy e fianco a fianco con Rick Wakeman nell’album “Tales From Topographic Oceans” degli Yes. Le bacchette sono invece affidate a Allan Schwartzberg, che è quasi riduttivo definire virtuoso e versatile, avendo nel suo bagaglio collaborazioni con nomi che vanno da James Brown a Laura Nyro, passando per Gloria Gaynor e lo stesso Alice Cooper. E a proposito di The Prince of darkness, ma anche di Lou Reed e degli Aerosmith, un ottimo supporto alla sei corde acustica e ai cori viene fornito rispettivamente da Steve Hunter e Dick Wagner. Ezrin, dal canto suo, pone il sigillo definitivo chiamando a suonare la London Symphony Orchestra, diretta e arrangiata da Michael Gibbs.

Dopo quasi due anni di lavori, a febbraio del 1977 viene fuori un disco multiforme, a partire dal titolo: per alcuni è omonimo, per altri è “I”, per altri ancora è “Car”, dal primo piano di copertina che ritrae un’auto coperta di pioggia nella quale si scorge un Gabriel dall’espressione enigmatica. Quella copertina, frutto del genio dello studio Hipgnosis, ricorda quanto sia difficile, ma anche emozionante, allontanarsi da una strada nota per intraprenderne una tutta nuova. Nel corso delle nove tracce il disco muta continuamente le sue sembianze, assumendo di volta in volta i connotati del Gabriel che ricorda un tempo glorioso ma che non c’è più, una sorta di “capitemi, adesso faccio questo…” riferito al presente e il prototipo del solista maturo e di spessore internazionale che diverrà di lì a poco.

I Genesis del recente passato, piaccia o meno, lasciano i loro strascichi rock (Moribund The Burgermeister e Slowburn) e melodici (Humdrum). Peter però dimostra di saper cambiare rapidamente registro, ponendosi agli antipodi con il punk di Modern Love e la parodia di Excuse Me. Un grandioso sfoggio di ballad – forse i pezzi migliori del disco – si ha con il lungo blues di Waiting For The Big One e la malinconica Here Comes The Flood. Poi ecco l’orchestra, che in Down The Dolce Vita si alterna con la strumentazione della band e dà vita a un cinematico concentrato di prog, jazz e sinfonica. Discorso a parte merita la sontuosa Solsbury Hill, caratterizzata da una chitarra incalzante sulla quale si staglia la voce di Peter, che in musica ribadisce il concetto mostrato nella foto di copertina. Sarà il primo singolo del Gabriel solista, nonché il traino commerciale dell’intero disco.

Con l’uscita di “I”, Peter Gabriel pone le basi per la sua personale escalation di artista affrancato dalla sua band. Seguiranno, in questa particolare tetralogia di untitled sottotitolati, “II” (“Scratch”), dalle trame maggiormente sperimentali, “III” (“Melt”), una gran prova della sezione ritmica e “IV” (“Security”), che sancisce l’inizio dell’impegno umanitario del cantautore londinese. 

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