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Back In Time

“Mellow Gold”, la musica senza generi di Beck

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Loser, inizialmente stampata in 500 copie, invase prima le programmazioni delle radio universitarie e poi eccitò i palinsesti di quelle mainstream come un’onda anomala: l’ode ai perdenti di Beck era una geniale filastrocca folk/blues introdotta da una slide guitar campionata che, con l’aiuto del produttore hip hop Carl Stephenson, divenne l’inno ufficiale della “tredicesima” generazione americana, quella dei baby busters che avevano appena trovato in quel giovane portatore di vedute oblique il padrino della propria aggressive non participation, per dirla alla Richard Linklater.

Così, nel giro di poco tempo, Beck si ritrovò dai ponti sotto i quali dormiva a quelli d’oro che gli promettevano le major a caccia della next big thing. L’uomo che “….MTV Makes Me Want to Smoke Crack….”  firmò per la Geffen, e nel contratto inserì la possibilità di incidere materiale extra per piccole etichette. L’ironica e sfrontata disillusione di Loser faceva da prologo al post-folk mutante di ”Mellow Gold“, una centrifuga impazzita di musiche utopiche in bassa fedeltà. Beck partiva dalla tradizione per costruirci sopra nuovi orizzonti, e “Mellow Gold” era la foce di mille fiumi, l’incrocio di mille periferie: il folk acido e la psichedelia, il Village e il rock’n’roll, il blues e l’hip hop, il garage rock e Chuck D., i Beastie Boys e Dylan, gli Appalachi e i Devo. E tante altre cose, tutte assieme con la naturalezza di un fiume che scorre. Accostamenti che in mano ad altri sarebbero apparsi un sacrilegio, un capriccio malato o la vuota esibizione di un’arsenale di saperi.

Mellow Gold” narrava l’identità della generazione X attraverso le sue nevrosi e le sue scorie, e Beck era all’autoelogio della propria inadeguatezza: era già l’eccentrico sovrano dell’assurdo, e il surrealismo divertito delle canzoni dava al tutto un’aria da spavalda autodifesa. Registrato su un otto piste fra la cucina e il salotto di casa Stephenson, “Mellow Gold” era una gioielleria di suoni antichi con vista sul futuro, ed ognuna delle sue canzoni aveva tante di quelle idee che altri ci avrebbero riempito un album intero: un colpo di genio dietro l’altro, tra il funk rappato di Beercan ( con dentro un sample dei Melvins) e il folk precario di Pay No Mind, tra il lo-fi punk al napalm di Motherfucker e il Magic Bus degli Who perso nel Bronx di Fucking with My Head.

Mellow Gold” era il trionfo del do it yourself, aveva dentro il rumore della banale realtà del quotidiano, e quelle di Beck erano il differimento hip hop delle invettive folk di Dylan con la disillusione al posto della rabbia, l’interpretazione in chiave surrealista dei disagi della generazione che era cresciuta con la raccomandazione di ‘non prendere caramelle dagli sconosciuti’. ”Mellow Gold“, nome mutuato da una potente varietà di  marijuana californiana, suonava la carica per la rivincita della generazione invisibile: col suo sarcasmo dimesso e il suo slang decorato da metafore e nonsense, era la zattera di salvataggio per i profughi del pensiero positivo.

Ogni canzone sembrava qualcosa, ma nessuno poteva esserne certo. Beck era l’intruder postmoderno, e forse definitivo, della storia della musica giovane, un marziano di marzapane sopra una torta natalizia: qualche mese prima dell’uscita dell’album, Loser aveva scalzato dalla testa delle classifiche indipendenti All Apologies dei Nirvana, e qualcuno ci vide come un passaggio di consegne, da re a re, con la differenza, tra Cobain e Beck, che quest’ultimo riuscì poi a instaurare col successo una sorta di convivenza pacifica. Titoli come Sweet Sunshine, Soul Suckin’ Jerk , Blackhole, erano folgoranti rappresentazioni dell’arte indifferenziata di Beck, bizzarre anticipazioni del fenomenale “Odelay“, l’album grazie al quale il biondo losangelino con gli occhiali da aviatore divenne un perdente di successo.

Tra dildo giganti e papponi del precariato, vicini di casa ubriachi e spacciatori paranoici, vite minime ed emarginati totali, Beck aveva scritto il vademecum della genreless music.

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