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Una generazione senza speranza: “Canzoni da spiaggia deturpata” di Le Luci Della Centrale Elettrica

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Quell’estate legai la bicicletta sotto al portico di una banca, in centro, e presi il treno. Scesi ad Arezzo diverse ore dopo, faceva caldo e il colore predominante era il giallo. Passai alcuni giorni in Toscana, ospitato dal mio amico Iacopo, che all’epoca gestiva un’etichetta indipendente come si deve. Uno dei pochi, in Italia, rimasti a farlo. Ricordo che mi portò a vedere dove lui e Andrea, anch’egli aretino, tenevano i vasconi dei dischi che avevano prodotto e che avevano in distribuzione. Scaffali, contenitori, cassette erano disposti accuratamente in una taverna. Il colore predominante era ancora il giallo. Passammo le giornate svegliandoci tardi, bevendo acqua del rubinetto e girovagando per la città e nei suoi aridi dintorni. Pranzavamo seguendo il telegiornale, che parlava praticamente solo delle Olimpiadi che si stavano svolgendo a Pechino. “Ah ma quindi Beijing è il nome cinese di Pechino, non sono due città differenti!”

Per sdebitarmi, mi offrivo continuamente volontario per dare una mano a Iacopo nelle faccende domestiche, almeno cucinando o facendo la polvere. Ma mangiavamo sempre noodles o eravamo invitati a casa di altri a cena, e di polvere, quella che si appoggia sugli oggetti, sulle penne, sulle posate lasciate incustodite per troppo tempo in cucina, non vi era alcuna traccia.

La mia vacanza sarebbe terminata con il concerto dei Neurosis a Senigallia e ci sarei andato con loro, i ragazzi che avevo conosciuto lì. Era un modo per passare le ferie alternativo e solidale, nonché organizzato nei minimi dettagli. Subito dopo il concerto, a notte fonda, avrei preso un altro treno, direttamente da Senigallia, per ritornare a casa. Il giorno prima dell’esibizione dei giganti di Oakland, però, decidemmo di andare a un altro concerto, quello di Vasco Brondi, un ragazzo poco più giovane di noi che all’epoca (era il 2008), si faceva chiamare Le Luci della Centrale Elettrica ed aveva appena scritto un disco assieme a Giorgio Canali, pubblicandolo per La Tempesta Dischi.

Partimmo così alla volta di Acquaviva, un piccolo borgo vicino a Perugia. Pochi chilometri, nella campagna del Centro Italia, separano il paese da Arezzo: non era una distanza impossibile, da coprire in una serata. Cenammo, io non cucinai e il viaggio iniziò a bordo di un paio di macchine. Faceva caldo e l’aria entrava dai finestrini abbassati, investendo i nostri pensieri ammantati di libertà. La sentivo tra i denti, mi metteva angoscia. La strada divenne sterrata appena dopo essere usciti dalla statale, e iniziò a salire, tra i boschi e le case di campagna.

Ne avevo sentito parlare, di Vasco Brondi. Con quel disco, “Canzoni da Spiaggia Deturpata” stava girando parecchio per le feste, gli eventi e le sagre che punteggiavano quell’estate di Olimpiadi. Non avevo approfondito la conoscenza di quel lavoro, però ascoltando distrattamente solo un paio di canzoni passate svogliatamente nelle prime, fastidiosissime, playlist di Youtube e senza esserne, peraltro, rimasto più di tanto colpito. Ascoltavo altro. Il concerto si teneva, appunto, nell’ambito di un’iniziativa musicale locale, e non c’era molta gente. Forse per il luogo un po’ fuori mano, forse per gli interessi musicali dei ragazzi del posto un po’ distanti dalla musica di Brondi, forse perché erano tutti concentrati sul main event dei Neurosis. Fatto sta che eravamo al massimo cinquanta persone, un po’ poche per un artista sulla cresta dell’onda come lui.

Iniziammo a bere, ovviamente. Birra annacquata e long drinks senza ghiaccio, ma costava tutto poco e il concerto era gratuito. Le Luci della Centrale Elettrica era seduto ad un tavolino, il solito ripiano traballante dove si vendono i dischi e si espone il merchandise. Era da solo. All’epoca non aveva altri musicisti che lo supportassero nei suoi live.  Faceva tutto lui, con la sua chitarra e qualche bottiglia. Era abbastanza stranito dall’ambiente, così rustico e al contempo così antisociale. Non sembrava nemmeno l’ospite della serata, sembrava un ragazzo come tutti noi che eravamo lì per ascoltarlo. Mi avvicinai per comprargli il disco, ma anche per poterci parlare un po’.

“Vuoi anche il poster? Te lo regalo”, mi disse dopo aver preso direttamente dalle mie mani i soldi per “Canzoni da Spiaggia Deturpata”.
“No grazie, davvero. Lo rovinerei, devo fare un viaggio in treno e andare a un altro concerto domani, farebbe una brutta fine”.

Il foglio di carta era enorme e raffigurava la copertina del disco che si accingeva a riprodurre dal palco, con le date di quel tour impresse in corsivo in basso a sinistra, dove l’acqua o la parte più chiara che scorre alla base della collina si fa più inessenziale per la completezza del quadro. Inchiostro nero. Udine, Milano, Ferrara, Torino, Firenze, Matera: questo era quello che vi leggevo.

“Ah sì? E che concerto è?” Avevo finalmente trovato una discussione da affrontare con lui.
“Neurosis, suonano nelle Marche, a Senigallia.”
“Ah sì, conosco.”
“Beh immensi, è la prima volta che li vedo!”
“Scusa, intendevo, conosco Senigallia. Dei Neurosis non ho mai sentito parlare.”

Rimasi di stucco. Era un cantante affermato, ormai. Aveva girato, aveva registrato un disco che sarebbe diventato importantissimo per il panorama musicale italiano negli anni duemila, e non conosceva i Neurosis. Guardai il compact disc che avevo in mano e lo salutai, facendogli i complimenti per l’album che avevo ascoltato pochissimo. Gli mentii.

Dal palco, fu tutta un’altra cosa. Era quella la nostra generazione, dovevamo ficcarcelo in testa. Appartamenti, lavanderie automatiche, lavori precari, sconti al discount, sigarette gettate nel gabinetto, birre che sanno di prosciutto, treni, siringhe, delusioni, Bologna, università, sonni non meritati, personalità devastanti. Quei quaranta minuti furono tutto questo. In un’atmosfera che divenne a poco a poco, da spigolosa com’era, commovente e lacerante. Le vene diventavano binari, e la metafora del pettine era troppo vivida da poter essere sopportata. Non esisteva più un rapporto di coppia sano, non esistevano nemmeno i confini tra odio e amore. Non fui capace di proferire una singola parola, durante quel live. Né a Iacopo, né ad alcuna persona presente lì con noi. Tutto era negazione, era rigetto.

Alla fine, non ebbi nemmeno il coraggio di congratularmi con colui che, portando in giro per l’estate italiana un disco di pochi pezzi, citando Rino Gaetano e Tondelli, era appena sceso dal palco ed era tornato ad assumere l’aria naïve e dolcemente trasandata di sempre. Eppure, ci avevo parlato per due minuti, mi voleva regalare persino il poster del tour. Niente. Fu uno dei concerti più violenti ai quali abbia mai assistito.

Chissà a che finanzieri si riferiva. Chissà da dove proveniva il suo smodato interesse per la fantascienza e lo spazio, chissà se preferiva Milano a Bologna. Avrei voluto domandargli un sacco di cose, ma preferii tornare a bere birra annacquata.

Durante il viaggio di ritorno, mentre i fanali illuminavano le strade tortuose e la nostra finta noia, ascoltammo il disco. Ero stato l’unico, nella nostra compagnia, ad averlo comprato. Gettai la plastica che lo avvolgeva sul tappetino dell’auto, ripromettendomi di recuperarla una volta arrivati. E così feci. Non era la mia automobile e dovevo avere rispetto.

Non parlammo tra di noi sino a quando, una volta rientrati ad Arezzo, non ci augurammo a vicenda la buona notte. Non erano nemmeno passati dieci anni, da Genova e le Torri Gemelle, le nostre estati erano sempre stati una uguale all’altra: aveva un senso raccontare in quel modo così crudo la nostra generazione, inserendola in una quotidianità spiegabile con la proposizione “anni zero”?

Divorai il disco sino agli inizi dell’inverno, passandolo persino ad alcuni miei amici più cari. Era una cosa che, sì e no, avrò fatto cinque volte solo in vita mia. Volevo che tutti si rendessero finalmente conto di appartenere ad una risma di persone fatiscenti accomunate dall’inseguimento di progetti scadenti.

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