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Kee Avil – Crease

2022 - Constellation
sperimentale / elettronica / post punk / avant pop

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Tracklist

1. See, My Shadow
2. saf
3. Drying
4. Melting Slow
5. And I
6. Okra Ooze
7. I Too, Bury
8. Devil's Sweet Tooh
9. HHHH
10. Gone Again


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I debutti sono bestie strane. Non importa l’anno in cui escono e a che generazione finiranno in pasto, ognuno di loro racchiude in sé una natura specifica, a volte urgente, altre figlia di lambiccamenti, altre ancora vi regna una gran confusione e si ritorna da capo, all’urgenza di voler dire a tutti quanto si è solo immaginato e tenuto per sé fino ad un attimo prima. Poi ci sono dischi come “Crease”, ed è al loro cospetto che si capisce immediatamente che non c’è regola che tenga.

Vicky Mettler arriva da Montréal, è una produttrice e una chitarrista e, stando a quanto leggo di lei, ha già condiviso il palco con Marc Ribot e Pere Ubu. Chiaro, spesso questo non vuol dire poi granché, ma questo non è un caso come gli altri. Kee Avil è il nome che Mettler sceglie per dare vita a quella che, a pieno titolo, è una tempesta sperimentale. Credo però sia del tutto riduttivo definirla, tanto che quando dovrò scegliere i generi di riferimento da inserire qui a lato mi troverò in seria difficoltà e finirò col farlo più per dovere che con convinzione.

Non importa che temperatura segnerà il termostato di casa vostra, una volta fatto partire “Crease” inevitabilmente la percepita si abbasserà sensibilmente sotto zero, perché l’oscurità che qui si muove strisciando è spaventosa e invadente. La penna di Mettler vomita parole che sanno di antri senza luce, di spirali amare e di assoluzioni lontane dall’essere raggiunte, relazioni sgretolate, sgomente rappresentazioni del sé. La sua voce le prende e se un attimo prima zoppica nel farsi rappresentante del proprio dolore, quello dopo si inerpica su scale invisibili che si frantumano ad ogni passo, in soffi, lunghe melodie e catacombe liriche, un tremore dietro l’altro senza nascondere dietro alle maschere che indossa niente di tutto questo reame pauroso.

Tutt’intorno la forma canzone (che c’è, esiste, la si avvista pur da lontano) esplode e i resti vengono prima sezionati in altri ancor più piccoli per poi tornare assieme. Decostruzione primordiale e al contempo futuristica, qui vi fa tana il post-rock primevo, una matassa inestricabile di dissonanze e minimalismo, dispiegamenti collaterali di classica contemporanea, crepitii industriali collassanti su discese elettroniche e schiocchi cardiaci, se il cuore fosse un groviglio di ingranaggi, con la chitarra a puntellare il materiale digitale a sognanti sospensioni immateriali da incubo. Fanno stare male, ci si sente fuori posto quando si assestano ancor più di quando si fanno math, vi sembra albergarvi qualcosa di sotterraneo e malvagio la cui dimora non è una caverna bensì una stanza asettica e bianca, fuori dal tempo e dallo spazio in una dimensione tagliata di netto ma in maniera del tutto irregolare.

In tutto questo marasma sento ciò che sentii quando, in giovane età, venni a contatto con Swans e Diamanda Galas (e non sono paragoni musicali, perché siamo altrove), ma forse anche di più. Forse quel che sento ora è altro. Di una cosa sola sono sicuro: Kee Avil ha già le chiavi per aprire le porte del 2022. Non le userà, perché passerà dalle fessure, si insinuerà e vi friggerà il sistema nervoso e ammesso che si possa ancora fare, parliamo di avanguardia.

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