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Mutismo e schizofrenia: “Half-Mute” dei Tuxedomoon

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La metà, Giano, il doppio, lo specchio, o meglio, uno specchio spaccato, una metà muta, l’altra? Chi lo sa, sicuramente esuberante, o piangente, la maschera, ripenso a “Halber Mensch” degli Einsturzende Neubauten, mezzi-uomi, mezzi-muti. Ecco i Tuxedomoon a San Francisco, l’altra New York, nascono come duo, Blaine L. Raininger e Steve Brown, con l’imperativo di distinguersi da tutto. Intellettuali, corsisti all’Art Institute, ramo degli Angels of Light: una “famiglia” di artisti impegnati che cantavano, ballavano, dipingevano per il Free Theater, opere d’arte viventi, discepoli di Artaud e Wilde. I Tuxedomoon sono quelli vestiti in smoking nei peggiori locali punk, tutta la notte a guardare la luna col tuxedo.

A differenza di New York, la new wave di San Francisco affondava le sue radici nel teatro e nella danza, e i Tuxedomoon furono il gruppo che meglio rappresento quel background multi-disciplinare. Il loro surreale futurismo, coniarono un genere di musica rock che trasferiva l’alienazione al napalm del punk in forme composte degne della musica classica. Il cabaret post-punk di Tuxedomoon abitava un’ europa della mente ancor prima che si trasferissero da San Francisco a Bruxelles. Parlo di un posto fantastico senza confini, dove punk, Bauhaus (il movimento e la band), Stockhausen e una miriade di musiche tradizionali hanno tutti lo stesso potere e non sono mai in guerra tra loro.

È l’annus mirabilis, il 1980, e i Tuxedomoon esordiscono con “Half-Mute“, troppo avanti: pochi i produttori in zona capaci di lavorare sulle batterie elettroniche, «c’era molta ostilità nei confronti delle batterie elettroniche» spiega Brown, il ritmo programmato come un concetto alieno. Per l’occasione un terzetto (Blaine L. Reininger al violino, Steven Brown al sax, Peter Principle al basso), ma talvolta aiutati al canto dal concettuale Winston Tong e alle visioni dallo scenografo Bruce Geduldig. Drammaticamente spoglio, geometrico, cerebrale, tutto astratto: tastiere, un violino, un sax, qualche stralcio di voce, un beat minimo. Fremiti di violino, fredda elettronica, un lugubre sassofono evocano un’atmosfera languida e malinconica.  Beffarda e sensuale, vivace e psicotica:  «Here comes loneliness/Here comes the onlyness/Here comes his holiness/Here comes loneliness».

Una stanca eleganza. “Half-Mute” è un equilibrato assemblaggio di pop, glaciale musica da camera e collage sonori impressionistici. Trovi elettronica, funk, krautrock, pop e post punk. Musica variamente cinematografica, oscura, drammatica, ipnotica, melodica, misteriosa. È la musica del diavolo, seducente, Tritone (Musica Diablo), dove le accelerazioni violente del violino di Reininger, insieme agli arazzi minimali delle tastiere, generano una disgregante tensione emotiva, frutto anche del peccaminoso tritono, da sempre proibito nell’armonia classica e dalla Chiesa. Poi un inno a James Whale, il regista horror del primo Frankenstein, o forse al suo coraggioso coming out in una Hollywood del dopoguerra ancora troppo puritana. Le campane a morto suonano meste. Ancora, senza soluzione di continuità, è il sax di Brown, come da un angolo finora nascosto, a riaccendere una minima fiammella umana (sarà anche il rumore della strada di città che si percepisce, a tratti, in sottofondo) in un contesto che di tratti umani aveva fin qui fatto vedere ben poco, prima del ritornello filastroccato di Seeding The Clouds: «They’re seeding the clouds today/Watch nothing’s going to go your way». Guarda, ascoltaci, niente andrà per il verso giusto.

Un’esperienza difficile da raccontare a parole, come quando fai uno di quegli incubi al neon, dove tutto è saturo, inquietantemente ordinato, tu sudi freddo, e lo sai che da qualche parte qualcuno impugna un coltello, ma nei loro volti, mezzo-muti, solo sorrisi.

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