Impatto Sonoro
Menu

Back In Time

“Black Celebration”: i Depeche Mode diventano adulti

Amazon

I Depeche Mode degli esordi sono il più classico esempio di quanto una band riesca ad essere allo stesso tempo paracula e di successo. Il giochino commerciale trova presto compimento, lo ascoltiamo tutti i giorni se solo accendiamo la radio e la sintonizziamo su una stazione a caso: si prende un giro di note in grado di catturare subito l’attenzione, si spara un ritornello, meglio se in modo ossessivo, una bella spruzzata revival di roba risalente a venti o trent’anni prima e il gioco è fatto. Pensate a un evergreen come Just Can’t Get Enough: senza pretese, di struttura semplice, sembra la riedizione di una hit dei Beatles con le tastiere al posto delle “vecchie” corde.

Niente a che vedere con i synth degli Ultravox o le tastiere dei Roxy Music, per non parlare della già rodata scena new wave britannica, che a inizio anni ‘80 sfoggia calibri come The Cure, Gangs of Four e Simple Minds. Secondo una vecchia logica commerciale, i Depeche Mode danno ciò che chiede il pubblico. E non stupisca più di tanto se il tastierista Vince Clarke, uno dei fondatori della band, si stacca quasi subito e forma gli Yazoo, sostituito dal suo collega di strumento Alan Wilder. La prima notizia di rilievo, quindi, è che il nucleo storico del gruppo è già completo, con la voce di Dave Gahan coadiuvata dal terzetto di tastiere completato da Andy Fletcher e Martin Gore.

E’ quindi chiaro a tutti che il synth pop (o elettro-pop, per usare una definizione leggermente più cattivella) è una moda, qualcosa che ha successo oggi, ma non possiede i requisiti per resistere a lungo. Evidentemente. ciò è palese anche agli occhi dei Depeche Mode, che a un certo punto della storia realizzano che la stessa sta per volgere al termine. Il primo elemento che fa presagire un radicale cambio di registro, dopo “Some Great Reward” (1984) è la pubblicazione di due raccolte: “The Singles 81-85” e “Catching Up With Depeche Mode”. Due antologie dalle anime distinte, dato che la prima rappresenta una carrellata celebrativa dei successi commerciali, mentre la seconda è il lancio promozionale della band nell’ancora poco sfruttato mercato americano.

Sono messaggi, onde emozionali che i Depeche Mode lanciano ai fan e ai potenziali ascoltatori per dire che qualcosa sta cambiando. La moda sta per passare, gli artisti da milioni di copie dell’ultimo lustro stanno per sparire irrimediabilmente. C’è bisogno di altro, qualcosa di ancora indefinito ma che i quattro di Basildon sanno di possedere. Per scoprirlo non resta altro che guardarsi dentro, esplorando da cima a fondo la testa e l’anima di ognuno e poi capire cosa viene fuori.

Dopo estenuanti sessioni di registrazione e una tensione che – soprattutto negli ultimi tempi – rasentava la rottura totale tra i membri, il 17 marzo del 1986 esce “Black Celebration”. Ecco la risposta al quesito introspettivo: dentro i Depeche hanno oscurità, buio, tenebre. Tre sinonimi che vanno celebrati in tutte le loro sfaccettature, dalle origini alle conseguenze. L’abbrivio iniziale è scandito dalle cupe sonorità della title track e di Fly On The Windscreen, due pezzi dalle atmosfere che definire da film horror è riduttivo, ma che soprattutto mettono in chiaro il canovaccio che seguirà l’intero album.

Nel primo scorcio c’è appena il tempo per la tetra melodia delle ballate A Question Of Lust e Sometimes, quest’ultima un breve passaggio caratterizzato dall’abbinamento di sovraincisione di voci e piano. Un tema che torna nella successiva e ipnotica It Doesnt’t Matter Two, solo che stavolta le voci diventano un vero e proprio coro gospel.

A Question Of Time fa prendere un bel respiro, l’ascolto è decisamente più leggero, ma dura poco: Con Stripped – che in futuro sarà uno dei tanti cavalli di battaglia della band – si ritorna in modo prepotente sulle atmosfere cupe dei primi minuti. Una cupezza che assume tratti perfino minimali in Here Is In The House e World Full Of Nothing, con le sezioni ritmiche sostenute talvolta dai quei rumori che col tempo diverranno tipici del sound di Gahan e soci.

L’esistenzialista discesa negli inferi è completa con Dressed In Black e New Dress, entrambe intrise di tragica meraviglia, laddove sul piano musicale il quartetto britannico esplora in modo deciso e convinto i sentieri della new wave di stampo elettronico, su tutti i gli Stranglers di “La Folie”. Cercando di seguire le apparentemente illogiche strategie commerciali degli ultimi tempi, la versione del disco destinata al Nordamerica comprende But Not Tonight, mentre su CD, ma solo per il mercato Europeo, saranno inserite, oltre a un remix di quest’ultima, Breathing In Fumes e la struggente Black Day. Nessun compromesso però: il buio è padrone del mondo.

Nel viaggio introspettivo autoimposto, i singoli componenti di una band travolta dal precedente successo commerciale si ritrovano soli: “Black Celebration” è solitudine. Una solitudine che viene metabolizzata e ricacciata fuori sotto forma prima di tutto musicale: in un’epoca in cui il mercato viaggia spedito verso la comfort zone digitale, i Depeche scelgono la registrazione analogica. Poi ci sono i temi del disco, dove è palpabile l’abbandono sentimentale, sociale e perfino interiore, con l’autostima di una persona che in questo contesto alberga stabilmente sotto i tacchi.

Tutto ciò produce rassegnazione, che vuol dire tutt’altro che ritirarsi dalle scene. La rassegnazione va vissuta fino in fondo in modo da poterla raccontare, condividere. È questa la linea di demarcazione esistente tra dischi concepiti per vendere e un universo emozionale conferito in prima persona ad ogni singolo ascoltatore. Successo commerciale versus empatia, la partita si gioca tutta lì.

“Black Celebration” rappresenta dunque un punto di svolta. I Depeche Mode capiscono di non essere più ragazzini ma, cosa assai più importante, comprendono la natura del sound che vogliono proporre da grandi. È il primo angolo di una trilogia che nel giro di quattro anni si completerà con “Music For The Masses” e, dulcis in fundo, “Violator”.

Piaciuto l'articolo? Diffondi il verbo!

Articoli correlati