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Interviste

Pionieri di un nebuloso Lynch Core: i To Die On Ice al debutto con l’album “Una specie di ferita”

Hey folks. Very interesting tune and well performed but honestly, having a song named ANAL on a playlist is a bit of a big ask. All the best.

I To Die On Ice debuttano con l’album “Una specie di ferita“, in uscita per Grandine Records, È Un Brutto Posto Dove Vivere, Weird Side e Non Ti Seguo Records. Seppure all’esordio, la band – che si autodefinisce pioniera di un nebuloso “Lynch Core” – non è esattamente di primo pelo. In line up, troviamo infatti membri di Action Dead Mouse, Ominoacidi e Oracle. 

Artwork: Caterina Birolo

Ogni brano in “Una specie di ferita” utilizza pericolosamente – si fa per dire – una categoria dell’hard, esponendosi con una certa incoscienza e gusto per la contraddizione al rischio della censura di network e piattaforme governati da un patologico fraintendimento del concetto di democrazia e decoro, a suggerire quanto scabrose siano le parti che non si vedono. Quindi, non è solo musica. Il che apre la strada ad orizzonti espressivi più ampi, a un lavoro grafico sulla distorsione del porno. A una protesi video basata su due elementi cardinali: il fumo e la luce.

Abbiamo pensato bene di scambiare due chiacchiere con Fil (la quota Action Dead Mouse della band) per approfondire il progetto e parlare del disco, che trovate in streaming integrale di seguito e che sarà possibile scaricare gratuitamente attraverso la pagina Bandcamp ufficiale dei To Die On Ice.

Ciao ragazzi, raccontateci un po’ di voi, chi siete, da dove venite e com’è nato il vostro progetto?

TO DIE ON ICE è una cosa a cui pensavo già ai tempi degli Action Dead Mouse. Una sera, in Piazza Maggiore a Bologna – il che risponde alla domanda ‘Da dove venite’ – ho incontrato Simone (basso, ex Oracle), che non vedevo da una vita, e gli ho buttato lì l’idea di un progetto sexy, quasi pornografico, con sonorità ispirate all’universo di David Lynch. Forse, al tempo, l’avevo definita ‘musica sessuale’. Lui, che in effetti non si sbilancia mai, ha detto qualcosa del tipo ‘Mhm, interessante’. Quindi, ci siamo organizzati, abbiamo coinvolto Andrea (sax) e Alessandro (batteria) – che suonavano nella mia stessa sala con gli Ominoacidi – e abbiamo fatto una prova. Ed è stato davvero una merda. Parliamo di qualcosa come 5 o 6 anni fa. Le registrazioni amatoriali di quell’incontro sono francamente una delle cose più esilaranti che io abbia mai ascoltato. Personalmente, stavo lavorando a “Il contrario di annegare” con gli Action Dead Mouse, quindi non ci ho più pensato. Poi, è successo tutto quello che è successo, Andrea ha imparato davvero a suonare il sax, abbiamo testato 1341 batteristi (esclusi quelli che proprio ci hanno snobbato) per poi tornare ad Alessandro, c’è stato il Covid, Simone ha avuto un figlio, gli ADM sono morti e alla fine, il risultato di tutto questo, è TO DIE ON ICE.

Come avete scelto il vostro nome? e cosa vuol dire per voi? 

È una storia interessante. Ma la rivelerò solo in punto di morte.

Definite il vostro genere musicale “Lynch core”. Volete spiegarci da dove deriva e cosa significa? 

Come ho detto poco sopra, l’idea era recuperare l’immaginario sonoro noir jazz di David Lynch per enfatizzarne gli elementi di oscura sensualità. Cose alla Mulholland Drive, Twin Peaks e Strade Perdute, insomma. In corso d’opera, si sono aggiunti molti altri dettagli. Forse era prevedibile, perché nessuno di noi aveva mai suonato niente del genere. Simone viene da esperienze doom (non solo, altrimenti poi si arrabbia), Alessandro suonava la batteria nello stesso gruppo punk di cui Andrea era il cantante, io facevo una roba a metà strada tra math rock e post-hardcore. Quindi, sì, su una base dark jazz lynchana si è stratificata una creatura sonora davvero strana e inattesa, in cui sono entrati momenti screamo, accenni hardcore, sfumature soul, momenti alla Jarmusch. E credo che il Lynch Core sia una sintesi, più che una somma, delle cose.

“Una specie di ferita” è il vostro disco d’esordio. Raccontateci com’è nato e come avete scelto questo titolo. 

Vorrei che il titolo rimanesse aperto all’interpretazione di chi ascolta, come un libro di dediche a un funerale o qualcosa del genere, dove la gente può parlare di una persona evocando momenti e significati completamente differenti. Ovviamente, ha un’origine precisa ma può essere letto in molti modi diversi. E probabilmente sono tutti giusti. Rispetto alla genesi del disco, ci abbiamo lavorato in maniera strana e discontinua per ovvi motivi, tra svariate sale prova, con innumerevoli batteristi e, a volte, in 3 su 4. Alla fine, ci siamo rotti le palle e abbiamo registrato in diretta al Vacuum Studio di Bologna con Enrico Baraldi. Il mastering invece l’ha fatto Claudio Adamo.

Se doveste scegliere un brano rappresentativo del vostro album quale sarebbe e perché? 

Non so cosa direbbero gli altri. Anzi, forse lo so. Per quanto mi riguarda, credo sia “#ANAL – TUTTO QUELLO CHE CI RESTA”, perché ha un po’ tutti gli elementi di cui ho delirato fino a questo momento. Penso che gli altri ti direbbero “#SQUIRT – UNA CITTÀ IN FIAMME”, perché non c’è solo lo screamo ma anche un cantato un po’ sexy, c’è una struttura quasi da canzone tradizionale e a tratti suona piuttosto soul. D’altra parte, è una specie matrioska di citazioni. Quindi…

Al di là dei testi, della musica e di tutto ciò che ci sta intorno, cosa volete trasmettere con questo disco? C’è un messaggio più o meno nascosto che magari non cogliamo a prima vista? 

Beh, sì. Ma credo sia abbastanza evidente. C’è la proposta vagamente provocatoria di una concezione della musica – e, per estensione, dell’arte – come una sorta di pornografia sentimentale. Il che giustifica i pre-titoli con hashtag che richiamano le categorie del porno. In realtà, è diventato abbastanza interessante, almeno per me, capire anche come i social network, le piattaforme di streaming e una certa parte dell’utenza (in particolare chi pubblica le playlist) reagiscono di fronte a una forma apparentemente inaccettabile in antitesi rispetto al contenuto. Io ho la sensazione che chi mi ha detto “il pezzo è bellissimo e suonato meravigliosamente ma non posso inserirlo in playlist perché si chiama #ANAL” stia implicitamente praticando una forma di auto-censura generata dalla percezione autoindotta di cosa sia o meno inaccettabile all’interno di un sistema, che in realtà considera la musica alla pari di un prodotto e tendenzialmente se ne frega di cosa tu metti in una playlist. Comunque, questa è una riflessione mia e basta.

Quali sono i vostri programmi per il futuro? Dove potremo vedervi dal vivo? 

Ci sono un po’ di cose in ballo ma ancora non credo se ne possa parlare.

Grazie mille, di seguito ti lascio uno spazio per i ringraziamenti.

Grazie soprattutto a chi ha avuto la pazienza di arrivare fin qui, grazie a voi che avete messo da parte il pudore, grazie a Grandine Records, È Un Brutto Posto Dove Vivere, Non Ti Seguo Records e Weird Side per condividere questa follia. E grazie a Caterina Birolo (@violent.stranger su Instagram), che ha curato il concept grafico, prendendo spunto dall’esperienza di Phototeca.

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