Parlare d’Europa, oggi, quando la politica sembrava finita, quando la Storia, uscita dalla porta, rientra a colpi di mortaio dalla finestra, fa paura, e non dovrebbe. O forse, proprio oggi, diventa importante immaginare un’Europa sconfinata, un’Europa della mente, avere un’ideale, inseguire un’utopia, da costa a costa, nell’unico viaggiare possibile, il viaggio per il viaggio. Riascoltare quest’album, oggi più che mai, è un atto politico.
Premessa: “Trans-Europe Express” dei Kraftwerk è il più importante album di una delle più importanti band di tutti i tempi.
Nati dalle macerie, figli della distruzione, non cercano l’evoluzione ma la risurrezione. In America e nel Regno Unito degli anni Sessanta, i giovani potrebbero essersi sentiti socialmente obbligati a ribellarsi contro i loro padri: nella Germania dell’Ovest eri moralmente obbligato a ribellarti. E l’elettronica era l’arma perfetta per annientare il passato. I Kraftwerk non solo hanno rinunciato alla struttura del passato, ma hanno anche eliminato gli strumenti del passato. Sebbene più dolci del rimbombante e percolante punk-jazz dei Can, dell’arte schizoide e serrata dei Faust o del minimalismo metronomico dei Neu!, i Kraftwerk restano i più ribelli di tutti i gruppi kraut-rock, perché toccano il desiderio di un’intera generazione di tedeschi nati dalla guerra: il desiderio di sradicare il passato.
Strade, linee ferroviarie, centrali telefoniche e informatiche: il crollo della distanza attraverso le onde radio, le immagini satellitari e le modalità di trasporto sempre più veloci; gli effetti abilitanti e alienanti della tecnologia: i Kraftwerk sfruttano una tecnologia all’avanguardia per creare cerimonie e avvertimenti contro la stessa tecnologia all’avanguardia. Con semplicissimi leitmotiv ricorrenti qua e là nell’opera, cantano un’Europa ideale fatta di antichità e invenzioni moderne (la Hall of Mirrors di Versailles e Franz Schubert, e la title track), e un’Europa impassibile di fronte all’orrore della guerra (Europe Endless e, più cinicamente, Showroom Dummies). Allo stesso modo, non è certo un caso che tre album di fila dei Kraftwerk omaggino invenzioni dell’Europa continentale: “Autobahn“, “Radioactivity” e “Trans-Europe Express“. Al di sopra del ritmo sferragliante c’è una sequenza crescente di sintetizzatori a effetto Doppler. Si tocca l’assenza di gravità, scivola senza attrito nell’eternità e comincia la trance.
Quando spogli “Trans-Europe Express” di tutto il suo bagaglio concettuale e storico, hai ancora un disco sbalorditivo e commovente. Nella lunga carriera dei Kraftwerk, è forse l’album più coerente, meno consapevole e più divertente del gruppo: imperfezioni (è il 1977) nel sequenziamento e nella tecnologia dei sintetizzatori; i ritmi occasionalmente rotti, i singhiozzi e le linee melodiche, che in seguito sarebbero state sequenziate o ripetute tramite l’automazione, vengono effettivamente suonate in tempo reale. Questi minuscoli difetti creano un effetto psicologico sottile ma reale: non sei ipnotizzato da ripetizioni noiose, ma stai ascoltando una band. Questa è musica umana per robots. L’anti-identità dei Kraftwerk, la loro immagine provocatoriamente asettica, era volutamente l’antitesi del culto della personalità. Musicisti-robots: con tutti i pro e i contro del caso.
La loro influenza sulla new wave e sul post-punk è enorme, quasi incomprensibile, e l’intero movimento synth-wave degli anni settanta e ottanta è sorto direttamente dalla loro ombra. Nel 1982 gli Afrika Bambaataa di “Planet Rock” mixano la melodia di “Trans-Europe Express” e il ritmo di Numbers: divenne una hit da club mondiale. Da allora, ogni singola volta che senti un ritmo sintetico pulsare in una canzone pop, ricordati dei Kraftwerk, l’hanno fatto per primi.