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Do what I want, do what I feel like: “Smash” degli Offspring

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Uscii di casa che era ancora chiaro, in quel pomeriggio del 1996. C’era aria di pioggia e tra i palazzi del mio quartiere sentivo l’elettricità tipica, nel vento, del temporale che si sta avvicinando, scendendo dalle montagne e incontrando l’arsura dei campi. La scuola era già finita e ci apprestavamo, nella mia compagnia, a passare quel paio di mesi che ci separavano dalle ferie d’agosto in modo svogliato e arrogante. S. sarebbe passato di lì a poco a prendermi in macchina con sua sorella, che all’epoca aveva già la patente. Destinazione una festa di paese, una delle tante alle quali andavamo per ubriacarci spendendo poco e per vedere qualcuno suonare su un palco, dato che non sempre avevamo la possibilità e il permesso da parte dei nostri genitori di andare ai concerti che si svolgevano a Milano o a Torino, i concerti importanti.

Mi fermai all’angolo in cui la mia via, una strada chiusa, incrociava un’arteria più trafficata, una di quelle tante strade a doppio senso che congiungono il centro città e la periferia, nel Nord Italia. Appoggiai la schiena all’inferriata verde appena ridipinta della villa che si dava sul marciapiede e mi allacciai le scarpe, il mio primo paio di Airwalk, nere, verdi e marroni. In televisione, poco prima che uscissi, era passata una carrellata dei film usciti al cinema in quei giorni, tra i quali “Scream” di Wes Craven. Durante una scena, mi pare quella relativa ad uno dei tanti inseguimenti, la canzone in sottofondo era Come Out And Play degli Offspring e il ritornello, con quella voce cupa, mi era inesorabilmente rimasto in testa.

La sorella di S. arrivò inchiodando. Salii in macchina, un’automobile nuova nera e veloce, li salutai e chiesi a S., sporgendomi leggermente dal sedile posteriore, se avesse già ascoltato “Smash” o se, comunque, fosse un disco che conoscesse. Ne sapeva, di musica, quindi mi aprivo con lui quotidianamente per avere suggerimenti su dischi, concerti e gruppi, oppure solo per ottenere consigli. Mi rispose che sì, certamente, lo conosceva, e rise, chiedendomi se Dexter Holland avesse ancora le treccine. Io non sapevo nemmeno che faccia avesse, Dexter Holland, e gli risposi che anche se spaccava, “Smash” era un disco commerciale, che girava su MTV e che veniva persino suonato nei film che uscivano al cinema. “E a te che cazzo te ne frega? Ti piace? Basta!”, asserì lui, con sussiego. Sua sorella lo fulminò con lo sguardo, guidando, per quella parolaccia, e io mi sorpresi che S. potesse pensare una cosa così, dall’alto della sua vastissima conoscenza musicale.

Due mesi più tardi, ad estate già terminata, comprai “Smash”. Lo ordinai prima di partire per le vacanze al negozio di dischi dove mi rifornivo, l’unico in città che tenesse anche punk e metal, in modo da poterlo avere a settembre, con il ricominciare delle ostilità scolastiche. Corsi a casa con il CD nello zainetto che usavo per andare a prendere ripetizioni di matematica e saltai tutte le tracce, una volta inserito nel lettore, andando subito ad ascoltare Smash, il brano che dava il titolo all’album. Come out and play l’avevo ancora in testa da quel pomeriggio di due mesi prima e l’avevo riascoltata per caso un paio di volte, per radio o in televisione: non mi serviva sapere come suonasse nei dettagli. Venni immediatamente investito dalla voce, che partiva assieme a tutti gli strumenti, come se fosse un brano hardcore. Venni rinchiuso dal suo ritornello, “I am not a trendy asshole, do what I want, do what I feel like”, esultando per la sua diretta accusa a chi non fosse come me, un ragazzo che ascoltasse punk rock. La rabbia generazionale che questa canzone racconta, a partire dal momento in cui fu pubblicata per la prima volta, nel 1994, non venne mai più espressa così nettamente.

In quell’anno uscirono, a poca distanza l’uno dall’altro, “Dookie” dei Green Day, “Punk in Drublik” dei Nofx e “Let’s Go” dei Rancid: furono dodici mesi fondamentali per il punk melodico californiano, perché dopo l’uscita di queste pietre miliari fu più come prima. Cobain morì agli inizi di aprile e fu subito chiaro il passaggio di testimone tra i due generi, per la musica alternativa americana. Anche perché da quel momento in poi, il punk divenne cosa comune tra i giovani statunitensi, grazie all’esplosione mediatica di cui godette. Le creste arrivarono su MTV, lo skateboarding divenne disciplina universale, cambiò il modo di vestirsi e finalmente, i ragazzi iniziarono a leggere i testi delle canzoni. In questo esplosivo florilegio, “Smash” occupò una posizione preponderante. Grazie alla Epitaph, divenne infatti il disco prodotto da un’etichetta indipendente con il più alto numero di vendite mondiali. Ancora oggi detiene questo rimato e da allora, la label fondata da Mr. Brett, il chitarrista dei Bad Religion, assurse a ruolo di male assoluto per i punkers di tutto il mondo, fedeli da sempre ad una linea purista ed esclusiva, e la sua politica di ingaggio e promozione iniziò ad essere stigmatizzata in occasione di ogni concerto, di ogni volantinaggio, di ogni manifestazione, di ogni incontro.

Con quel suo inizio così confuso rispetto alla linearità dei singoli che lo hanno reso famoso e le parti più scostanti, “Smash” è il classico esempio di disco punk rock che ogni gruppo sceglie per dare una svolta alla propria carriera. È un disco da scoprire poco per volta, da cantare, da riascoltare dopo un periodo in cui lo si è lasciato nel dimenticatoio. Ecco allora arrivare Something to believe in, con i suoi cori stonati e le sue battute di cassa ridotte all’osso, ma carica di significati. Oppure What happened to you? , che ad un primo ascolto può apparire come una ballata ska che, per l’epoca, era obbligatorio scrivere ma che, seguendone il cantilenante testo, spiega una difficile situazione di incomunicabilità tra due amici di lunga data: “I say I’m not that kind of person, I’m not that kind of man. I try to explain, but you just don’t understand”.  

Nel loro insieme, le quattordici canzoni che compongono questo album, raffigurano una società violenta e senza scrupoli, descrivendola con una nuova cupezza e con parole precise che indicano specifiche azioni e il loro svolgersi nel tempo. Non erano conclusioni alle quali arrivai così presto, lo ammetto. Ci sarei arrivato molti anni dopo, riascoltando, per esempio, la stupenda It’ll be a long time, a mio parere la canzone in assoluto più bella di tutta la carriera degli Offspring.

Tralasciai le treccine di Dexter Holland ma venni a sapere, leggendo attentamente ogni parola di ogni booklet di ogni disco che mi capitava tra le mani, che lo stesso Holland aveva già fondato un’etichetta tutta sua chiamandola Nitro Records, qualche anno prima dell’uscita di “Smash”, con la quale aveva iniziato a produrre gruppi come Vandals e Guttermouth dedicandosi comunque, nonostante un continuo rapporto con major discografiche, al punk rock radicalizzato, libero dalle logiche di mercato e dagli eventi televisivi. Grazie ad una compilation promozionale di questa etichetta conobbi gli AFI ed ascoltai una delle prime canzoni di successo degli Offspring, Teheran, uscita nel disco omonimo datato 2001.

In vita mia, mai mi sarei sognato, ormai quarantenne, di comprare dischi Epitaph risalenti a quell’epoca. Avevo passato anni a boicottare l’etichetta californiana, concentrandomi su autoproduzione e impegno. Non ho rimorsi a tal proposito, ma il morale della favola è che S. aveva avuto ragione per l’ennesima volta.

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