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Back In Time

“Woowee Zowee”, i Pavement erano l’emblema della libertà

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Estate 1999, scuola finita, tempi morti. Avevo solo 11 anni, ma di tanto in tanto mi affacciavo a MTV e ai videoclip trasmessi, un po’ sognando di essere quel cantante o quel chitarrista, e perché no, anche quel bassista sempre tanto bistrattato. L’immaginario sugli artisti quando ancora i social non esistevano era del tutto sbiadito e si basava sui videoclip, le rare interviste passate in tv e le foto sui magazine. In quel periodo passavano di tutto su MTV, c’erano gli Oasis, i Sonic Youth, i Sebadoh, i Dinosaur Jr, i Blur. Si respirava un clima di rifondazione, quasi che si stentava ad accogliere i sempre più vicini anni 2000.

I Pavement erano l’incarnazione del fottersene, del lasciarsi andare, ma rappresentavano anche un forte grido di nostalgia di un mondo che non sarebbe più stato quello dei 90s. Se i Blur, con “13”, hanno adottato un mood più oscuro, i Pavement, con “Wowee Zowee”, hanno fatto propria la sperimentazione mostrando all’ascoltatore ben altre personalità. Il disco è un pot-pourri di elementi e creazioni lungo un percorso più ampio. Come dice Stephen Malkmus in un’intervista datata 01/96: “Non è proprio come se un suono fosse onnipresente in ogni canzone. Alcune delle canzoni sono state registrate in diversi studi e sono state tutte mixate in momenti diversi. Volevo consapevolmente farlo solo per farlo sembrare diverso”.

Ci si trovano in effetti chicche riconducibili al primo periodo di “Slanted & Enchanted”, come Kennel District e Father to a Sister of Thought, mentre in Fight This Generation il sound diventa più spigoloso e dilatato, si perdono i binari dello schema canzone. Lo stesso dicasi per Half A Canyon, lunga digressione incessante e mordente, tagliente e rigenerante, quasi una suite alla Sonic Youth ma soft style. Il lo-fi a livelli artistici, liberazione da costrizioni socio-musicali.

Photo: Michael Wong

Sempre Malkmus afferma: “Questo è forse un altro motivo per cui abbiamo realizzato “Wowee Zowee”. Non abbiamo lavori diurni o altro adesso, e fondamentalmente possiamo fare arte per il bene dell’arte. Ovviamente, non potremo andare in pensione e acquistare case o altro. Ma l’arte per l’arte è tutto ciò che ho sempre voluto fare comunque”. Il frontman dei Pavement è piuttosto sincero in tutto ciò. Nella sua vita, durante e dopo la band, si è sempre posto pochi confini e, detto in termini terra terra, ha sempre fatto un po’ come cazzo voleva. Il look blue jeans e maglietta, la faccia da bravo ragazzo e le espressioni nostalgico infantili l’hanno contraddistinto per gli interi 10 anni della band e non ha mai pensato di doversi adattare a usi e costumi e mode degli anni che passavano lentamente. Due anni dopo “Wowee Zowee”, Malkmus sarebbe tornato a fare del rock a bassa definizione come solo lui sa fare meglio, si veda la nevrotica Stereo.

I Pavement ci hanno abituato al fatto che la libertà creativa e la trasversalità degli approcci di arrangiamento portano sempre ad un risultato egregio e ad una schiettezza melodica di tutto rispetto. Aspettatevi un quadro pop-rock tinto di strani sputi di colore, che viaggia su un treno sghembo e fuori binario, ma che in qualche maniera, grazie ad uno strano posizionamento degli astri musicali, mostra un suo splendido equilibrio.

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