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Meshuggah – Immutable

2022 - Atomic Fire Records
progressive metal

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Tracklist

1. Broken Cog
2. The Abysmal Eye
3. Light The Shortening Fuse
4. Phantoms
5. Ligature Marks
6. God He Sees In Mirrors
7. They Move Below
8. Kaleidoscope
9. Black Cathedral
10. I Am That Thirst
11. The Faultless
12. Armies Of The Preposterous
13. Past Tense


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Io non ce la faccio. Ad ogni uscita di un album dei Meshuggah mi riprometto di evitarmi la patata bollente della recensione, ma ogni volta ci casco come una pera cotta.

Ancora una volta ho perso giorni e notti a cercare di trovare un modo razionale per descrivere quello che esce dai solchi di questo disco e la conclusione è che non è possibile farlo lucidamente. Per il semplice fatto che non c’è nulla di razionale in quello che fa il gruppo di Umeå da almeno trent’anni.

Per troppo tempo abbiamo sentito dire che Haake e compagnia bella “sono una band avanti coi tempi”, così come “alla fine fanno sempre la stessa cosa” ma la verità è che, a partire da “None”, gli svedesi hanno smesso di far parte di QUESTO universo musicale. Tutto ciò che è stato concepito dalla metà degli anni novanta fa parte di un continuum temporale immutabile e inattaccabile.

E qui arriviamo al titolo dell’album: “Immutable“:

immutàbile agg. [dal lat. immutabĭlis]. – Che non muta o non può mutare, quindi fisso, stabile, costante, sempre uguale, detto in genere di cose astratte.

Quello che i Meshuggah ci vogliono dire è che è il loro approccio alla musica ad esser rimasto immutato, non il contenuto. Raramente infatti un loro disco suona uguale ad un altro. Dopotutto loro fanno parte di quella ristrettissima cerchia di artisti polarizzanti, che hanno tirato fuori un genere dal nulla e per il quale gli “ok ma fanno sempre la solita roba” lasciano il tempo che trovano. Se non per il fatto che molti non la hanno ancora capita bene, questa “solita roba”. Ma proviamo a parlare dell’album. 

La base di partenza è sicuramente quella del precedente “The Violent Sleep Of Reason”, ovvero un metal progressivo estremamente cervellotico, pesante e disturbante, che pulsa di un groove micidiale ma dal mood decisamente diverso. La differenza sta infatti in un approccio quasi cinematografico e con una tracklist che, nonostante i suoi quasi settanta minuti, scorre benissimo dando ad ogni brano una posizione ed un senso ben precisi.

Broken Clog, in apertura, ricalca certe atmosfere carpenteriane e rimbalza tra pesantezze inaudite e arrangiamenti quasi atmosferici, mentre Light The Shortening Fuse sembra uscita da “Chaosphere”, e ha dalla sua una profondità di suono inarrivabile. Phantoms, è prog/fusion che si camuffa da un brano metal, con un Haake strepitoso e un’evoluzione finale lovecraftiana da manicomio. Con Ligature Marks i muri sonori già sentiti in “Koloss” si adoperano per quella che è una delle canzoni più estreme della loro intera discografia: un continuo assalto ritmico in palm-muting che sfocia in una chiusura inaspettatamente melodica.

I soli irreali di Thordendahl nella labirintica God Sees In Mirrors ci portano verso i nove minuti strumentali di They Move Below, una specie di To Live Is To Die che arriva da una dimensione sconosciuta. Nella seconda parte del disco si raggiungono picchi nerissimi, come nel combo Black Cathedral / I Am The Thirst (dalle chitarre quasi black metal) ed altri quasi surreali, come i riff atonali di The Faultless. C’è ancora tempo, prima della inquietante outro Past Tense, per un momento di pura intransigenza con Armies Of The Preposterous, una delle cose più pesanti mai scritte dagli svedesi.

Dopo trentacinque anni di carriera, I Meshuggah ci consegnano quello che è forse il loro disco più estremo e lucido, una cosa che fa diventare matti solo a pensarci.

Ah, inutile dire che per quest’anno abbiamo già un vincitore.

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