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Back In Time

“The Rolling Stones”, l’origine del mito

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I miei sbiaditi ricordi d’infanzia mi riportano a uno spot che passava in televisione a metà anni ’80. Lunghi e grigi pomeriggi d’autunno venivano scanditi da quella voce squillante che pubblicizzava (credo) l’inserto di una rivista, esordendo con “Ladies and gentlemen, The Rolling Stones!”, e chiosando qualche secondo dopo con “il rock!”. Non sapevo chi fossero quei tizi, tanto meno di cosa parlasse lo spot, ma per anni il mio immaginario ha covato in grembo le due espressioni, The Rolling Stones e rock: due rette parallele, due sinonimi, due facce della stessa medaglia.

Non ho conosciuto molti fan degli Stones, tranne un mio vicino che li andò a vedere allo stadio San Paolo in una magica notte di luglio del 1982. In pochi giorni, le strade di Napoli furono invase per i festeggiamenti della Nazionale campione del mondo e per l’arrivo di Mick Jagger e la sua band, non una brutta settimana in effetti.

Una ventina d’anni prima, quando l’Inghilterra dei primi anni ’60 gettava le fondamenta di quella che sarebbe stata la swinging London, dalle parti del Kent si fondono tre anime completamente diverse. Michael Philip Jagger, detto Mick, uno studente d’economia con la passione per il canto, ritrova il suo amico d’infanzia Keith Richards, che nel frattempo ha imparato a suonare la chitarra. I due erano vicini di casa, salvo poi dividersi e riunirsi in alcune band adolescenziali. Nel fermento della Londra di quegli anni conoscono Lewis Brian Hopkins-Jones, un polistrumentista dal talento precoce e brillante.

Jagger e Richards amano il blues e il rock‘n’roll, Jones si è formato ascoltando e suonando jazz. In un solo nucleo convivono da subito John Lee Hooker, Bo Diddley, Chuck Berry e Charlie Parker. La prima formazione era un sestetto, completato da Ian Stewart al piano, Bill Wyman al basso e Charlie Watts alla batteria, tutti provenienti dalla locale scena jazz. La prima esibizione con il nome The Rolling Stones – preso da un vecchio pezzo di Muddy Waters – ha luogo a luglio del 1962 nel leggendario Marquee Club. Il primo ad accaparrarsi le prestazioni della band è l’eccentrico manager Andrew Loog Oldham.

Con un passato nella moda e nella promozione discografica – tra gli artisti pubblicizzati ci sono Bob Dylan e i Beatles – Oldham impara la lezione del suo mentore Brian Epstein, spingendosi ben oltre quanto avesse osato fino a qual momento l’impresario dei Fab Four. La prima mossa è eliminare dal gruppo Ian Stewart, il piano non serve a un gruppo rock, inoltre sei membri sono troppi, la gente farebbe fatica a riconoscerli tutti. Poi passa alla vera e propria strategia di marketing, che consente di creare curiosità intorno alla neonata band: i cinque sono bravi e artisticamente completi, la differenza sostanziale tra loro e la maggior parte delle altre band in giro per il circuito è che se la cavano discretamente anche nella composizione, trascinati da Brian Jones e dall’indissolubile duo JaggerRichard, che lo seguono a ruota.

Sulla scena, tuttavia, già da qualche tempo i Beatles dettano legge in termini musicali e di stile. Questo non rappresenta un limite per Oldham, bensì un’opportunità. Non è il caso, infatti, di creare a tavolino cloni dei quattro di Liverpool: gli Stones devono distinguersi, contrapponendosi all’immagine rassicurante da bravi ragazzi che Epstein ha cucito addosso a Lennon e soci. A partire dagli abiti di scena, il quintetto londinese sfoggia un look da bassifondi, ponendosi in modo provocatorio e disturbante. Un po’ per divertimento, un po’ per indole, Jagger e i suoi evocano i sentimenti più infimi della psiche umana, una strategia che funziona in modo eccezionale dalle prime esibizioni. La famosa contrapposizione con i Beatles non è altro che la naturale prosecuzione di ciò che alberga nelle sinapsi di Oldham. Le due band non c’entrano niente l’una con l’altra, hanno sonorità, stile, look e pubblico agli antipodi. Eppure sono rivali, perché le manine del marketing riescono sempre a creare un evento, estrapolare una frase da un’intervista o scrivere un artefatto articolo di giornale che metta gli uni in contrapposizione agli altri.

Dopo uno sparuto gruppetto di 45 giri pubblicati nei mesi precedenti, il 16 aprile del 1964 viene dato alle stampe il primo e omonimo album dei Rolling Stones: la musica non sarà più la stessa. Ironia della sorte, uno dei più attivi nel convincere la Decca a produrre l’album fu George Harrison. La prima composizione di Jagger e Richards, Tell Me, è la ciliegina sulla torta composta da una serie di rivisitazioni di vecchi pezzi rock‘n’roll, r’n’b e blues. Si va dall’iniziale Route 66 di Bobby Troup a Walking The Dog di Rufus Tomas (il primo a credere nel talento di Elvis), passando per l’eterna I Just Want to Make Love To You di Willie Dixon e Carol di Chuck Berry. C’è anche Little By Little, un pezzo di Phil Spector, che nella versione degli Stones ha l’onore di suonare le maracas. Il disco è subito numero 1 nel Regno Unito e certificato oro negli Stati Uniti: è tutt’altro che un caso. 

Nella mezz’oretta abbondante in cui il vinile gira sul piatto, i Rolling Stones hanno il potere di fondere due generi, il blues e il rock, creandone uno nuovo. Il prodotto finale è innovativo, futurista, corre veloce avanti nel tempo, non rappresenta per nulla un paradosso il fatto che parliamo di tutte (o quasi) cover. Jagger e soci mischiano sapientemente musica bianca (rock) e musica nera (blues), creando dal nulla un’ibridazione mai ascoltata: per la prima volta nella storia, una band di bianchi rivisita e porta al successo l’ampio repertorio della black music.

L’altro elemento distintivo del peculiare stile proposto dagli Stones risiede nell’immagine che il gruppo decide di darsi. Disagio e devianza sono calibrati alla perfezione da un frontman che incarna il prototipo vivente di quel triangolo formato da sesso, droga e rock ‘n roll, espressione (ab)usata a partire solo dalla fine del decennio. Al suo fianco musicisti in grado di supportarlo, completando un immaginario collettivo in grado di partorire i pensieri più laidi e lascivi nei loro confronti. 

Nel giro di due anni, i Rolling Stones pubblicano 5 album, alternando uscite destinate al mercato europeo (“The Rolling Stones No. 2” e “Out Of Our Heads”) a lavori studiati per gli standard americani (“12 X 5”, “The Rolling Stones, Now!” e “December’s Children (And Everybody’s)”). Esattamente due anni dopo l’esordio omonimo, il 15 aprile del 1966 uscirà “Aftermath”, il loro manifesto programmatico. L’apripista, Paint It black, sarà subito leggenda.

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