Impatto Sonoro
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L'editoria(m)ale

Del criticare superficialmente il giornalismo musicale online

Editoria(m)ale coraggio di suonare

In how many ways, words
Can you say nothing
In millions of ways, words
To say nothing

– Faith No More – Naked In Front Of The Computer

È sempre interessante leggere le opinioni di coloro che ti hanno formato e ispirato, spingendoti a scegliere di intraprendere una strada che si sapeva essere tortuosa, difficile e infruttuosa dal punto di vista economico.

Partiamo con una postilla: il numero di aprile 2022 del mensile “Blow Up” è finito sotto i riflettori della cronaca social, complice la recensione che Stefano I. Bianchi ha vergato circa il nuovo album di Kae Tempest. Il direttore è stato pubblicamente bacchettato da Giulia Cavaliere la quale ha portato all’attenzione di una ben nutrita schiera di partigiani dei Social lo scarso tatto utilizzato nel trattare tematiche decisamente complesse. Per la cronaca, Kae Tempest è un artista non binary, la qual cosa, secondo l’accusa, era citata nella recensione con una superficialità tale da passare quasi per uno degli argomenti principali a sostegno della stroncatura del disco. Al di là di questo – vi lasciamo liberi di cercare le tracce di questa shitstorm durata il tempo di una notte su Facebook e farvi la vostra idea, noi ci facciamo da parte in quella che è una disputa tra giornalisti della carta stampata, poi capiremo perché – la cosa peggiore di questa recensione, anche per noi davvero infelice, è che il Direttore al suo interno ammetteva di non aver praticamente nemmeno letto i testi di un disco che stava massacrando (“Per ciò che riguarda le parole non so giudicare bene, perché non le ho lette con troppa attenzione, ma da quel che ho visto posso dire che mi fido: è brava“). La critica è altra cosa, ma lui dovrebbe saperlo meglio degli altri.

Qui però vorremmo parlare d’altro. Nello stesso numero della rivista, Stefano I. Bianchi ha deciso di lanciare strali di bassa lega anche in altre direzioni, prendendo di mira il mondo del giornalismo musicale online. Nel suo editoriale, intitolato “Dell’interazione tra carta e web“, si prolude in difesa della propria scelta di non creare una controparte online di “Blow Up”, definendola vincente o quantomeno funzionale. Su questo non abbiamo nulla da ridire, d’altronde ognuno sceglie la propria strada da imboccare, sapendo meglio di chiunque altro cosa è meglio per il piano editoriale della propria testata. Il problema grosso nasce quando il Direttore, aumentando la gittata delle sue armi di difesa non richiesta, tira in ballo il sistema delle webzine musicali, ovvero il nostro mondo.

“Fatte salve le testate che vengono usate da chi ci scrive a titolo gratuito come autopromozione per le proprie attività lavorative reali (in genere letterarie e/o accademiche), direi che ce ne sono tante “vive e attive” perché per far funzionare un sito web si possono usare molti escamotage difficili da applicare ai cartacei […]. Oltre al sempiterno e comunque risolutivo “affidarsi al volontariato e quindi pagare poco o niente chi scrive”, che vale anche per tanti cartacei ma in rete è la regola, si possono fare tante altre cose.”

È evidente il tono paternalistico di chi si arroga il diritto di mettere nero su bianco le distorsioni di un sistema che dimostra però di conoscere con estrema superficialità, così come risuona forte il sarcasmo spicciolo nell’uso di virgolette e corsivi che lasciano intendere una presa di distanza da quello stesso sistema. Come a voler creare una contrapposizione insanabile tra due mondi, quello del giornalismo su carta e del giornalismo online, che non si capisce perché debbano per forza vivere in compartimenti stagni. Virgolettare “vive e attive” mette in dubbio vitalità e attività di chi gestisce e collabora con realtà come la nostra ed è indice di come quel mondo, il vecchio mondo della carta stampata, sia ancora indelebilmente legato a sensi di superiorità malcelata.

Partiamo dal presupposto di come le cose dalle nostre parti vadano all’esatto opposto di quanto detto. Chi si impegna a gestire una webzine, o semplicemente a farvi parte, lo fa al di là del proprio lavoro reale, che si scrive senza virgolette, corsivi, sottolineature o altri sottintesi, sacrificando il proprio tempo libero davanti al computer per scrivere un pezzo, rispettando tempi e formati imposti da noi odiosi caporedattori, ascoltando album su album, mettendo su schermo tutto sé stesso. Il tutto non per spingere libri o libercoli, corsi di scrittura più o meno creativa, ma semplicemente perché ritiene utile fornire un proprio punto di vista, spesso nemmeno allineato con la stampa alternativa, frutto in tutti casi di una passione, la nostra che è la stessa di chi scrive su carta, che fonde scrittura, musica e arte in genere. Non saremo mai abbastanza grati a tutti i nostri collaboratori che, pur senza essere pagati (perché non ce n’è davvero modo), sacrificano il proprio tempo per scrivere non per noi ma con noi, che in prima persona non percepiamo un singolo centesimo, anzi scuciamo di tasca nostra praticamente tutto il necessario per far sì di rimanere “vivi e attivi”.

Stefano I. Bianchi a questo punto sostiene di avere le prove e passa allo “svelamento degli altarini”, ovvero di come le webzine guadagnino un mucchio di soldi senza farsi beccare. A suo dire non può esistere una webzine di buona fattura che sia davvero free, gratuita, ma “in maniera più o meno occulta” debba per forza passare all’incasso tirando in ballo news, streaming, interviste e contenuti in generale, come se chiunque di noi accettasse scambi pecuniari da artisti ed uffici stampa per la pubblicazione di determinato materiale. Spiace quasi imbrodarsi da soli, ma ImpattoSonoro – ma siamo certi di poter parlare della stragrande maggioranza dei nostri colleghi “vivi e attivi” – è il perfetto esempio di come un sito e tutte le sue propaggini social possano essere gratuite e di qualità senza dover far sborsare un euro a nessuno degli artisti che finiscono sulle nostre “pagine” (tra virgolette, per carità). Ci sembra assurdo dover specificare che la riteniamo una condotta immorale, e fortunatamente nel corso della nostra attività ormai più che decennale nessuno ha mai portato alla nostra attenzione proposte del genere.

Capiamo a questo punto che la domanda possa essere sorta spontanea: come fate voi e tutte le altre webzine a garantire aggiornamenti quotidiani in termini di news e recensioni, a realizzare interviste, scrivere monografie, articoli speciali, a gestire con continuità i profili social se non alzate il becco di un quattrino? Come detto, Stefano I. Bianchi si risponde così:

Possiamo girarci intorno quanto vogliamo, la realtà è che, essendo l’accesso alla rete gratuito per qualunque operatore-utente, siamo nel paradiso della publi-propaganda sotterranea insinuante e sfuggente: serve solo un po’ di fantasia per escogitare la maniera migliore di piazzarla dissimulandola da articolo o infotainment. Tanto, che problema c’è? Il pubblico disarmato e felicemente consenziente di fronte alla gratuità, subisce e assorbe tutto senza porsi tante domande, men che meno riflette sul fatto che “se non paghi per avere qualcosa, la merce sei tu“, come recita un celebre adagio.

Sembra assurdo doversi giustificare, ma i pochi introiti derivanti dalle commissioni relative alla vendita di dischi e biglietti di concerti (ma chi li compra più i dischi e chi ci va più ai concerti?), che sono l’unica fonte di sostentamento esterna della webzine, coprono a malapena le spese tecniche di gestione del sito (dominio, spazio web e via dicendo). Dunque sì, vi sveliamo un segreto: è davvero possibile creare un prodotto gratuito e (speriamo) al tempo stesso di qualità, senza sotterfugi e dissimulazioni, senza che il pubblico sia ingannato e trasformato in merce. Siamo anzi certi che i lettori siano consapevoli della sincerità della proposta editoriale di ImpattoSonoro e delle altre webzine che navigano nello stesso mare, quello del giornalismo musicale indipendente, in cui l’unico vento a spingere forte è quello della passione. Esattamente come fu per le fanzine delle quali siamo in qualche modo figli, nate anche per opporsi ad un’egemonia di chiusura istituita da altri, una piaga che ha infestato tante frange della cultura alternativa e non solo del mainstream al quale pure si opponevano strenuamente. Vale sempre la pena ricordarlo.

Le critiche di Stefano I. Bianchi e il suo stonato argomentare sull’impossibilità “dell’interazione tra carta e web” suonano tanto come un tentativo, anche abbastanza puerile, di screditare la controparte per fingere di non vedere i problemi in casa propria. Siamo sicuri che i “consumi culturali quasi nulli” siano solo causa di chi (non) legge o forse anche chi scrive qualche colpa ce l’ha?

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