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Interviste

Si può ancora parlare di cantautorato impegnato: intervista a Marco Sonaglia

Abbiamo fatto una breve chiacchierata con Marco Sonaglia, cantautore ‘Indie’ 41enne, di origini marchigiane che affonda le proprie radici nel mondo del Blues e del Rock mainstream. Arrivato al suo terzo lavoro con “Ballate dalla grande recessione” (qui la nostra recensione), disco che consigliamo a chi, come il sottoscritto, apprezza da sempre il rock con evidenti contaminazioni folk, l’artista marchigiano ci ha raccontato cosa significhi essere un autore che si divide fra un lavoro ‘normale’ e una grande passione.

La tua biografia parla di un docente prestato al mondo della musica, quindi sia insegnata ma anche suonata. È forse il desiderio di dimostrare che quello che insegni sai anche portarlo sul palco?

In realtà nasco come cantautore, quindi la questione va rovesciata . Direi che ai miei allievi porto, oltre che le conoscenze teoriche e la tecnica, anche tutto ciò che significa suonare davanti ad un pubblico , con i suoi aspetti emotivi e comunicativi. Essendo la musica un linguaggio , gli allievi devono essere accompagnati in un percorso didattico che , con assoluta gradualità, consenta loro di usarlo , sin da subito , per esprimere ciò che sentono la necessità di ” dire” . Man mano si accorgeranno che necessiteranno di sempre maggiori capacità tecniche per esprimersi al meglio , ed interpretare gli autori che stanno studiando . Loro stessi saranno curiosi di sperimentare il contatto con il pubblico e la mia lunga esperienza di palchi e di live rappresenta un prezioso bagaglio esperienziale che in qualche modo li aiuterà nel loro futuro professionale .

Partiamo dagli inizi. Nato a Fabriano e cresciuto a Recanati quindi dalla provincia al mondo della musica con un percorso che ti accomuna ad altri autori. Parlaci del tuo esordio su un palco, come mai è avvenuto? E cosa, o chi, ti ha spinto a incidere il tuo primo disco?

La musica ha sempre fatto parte della mia vita sin dalla tenera età. Ho dedicato anni agli studi musicali, compresi quelli universitari stupendi passati a Bologna L’esordio sul palco inizialmente è stato come chitarrista in alcune band giovanili, poi successivamente come cantante. La mia vera carriera artistica nasce con il  trasferimento a Recanati dove finalmente ho potuto realizzare il mio sogno : Quello di vivere con la musica. Devo ringraziare la mia collega Lucia Brandoni che mi ha insegnato parecchi trucchi del mestiere, sia in ambito didattico, che in quello vocale. Dopo anni di palchi completamente diversi tra loro, mi sono sentito pronto per  registrare il mio primo disco “Il pittore è l’unico che sceglie i suoi colori”  prodotto da Massimo Priviero e che proprio nel 2022 compie dieci anni. Importantissimo è stato il sostegno della mia famiglia, che ha sempre creduto nella mia scelte, senza mai ostacolarmi.

Quali le influenze musicali che maggiormente ti hanno segnato? Ci vedo molto combat folk e parecchio cantautorato di casa nostra, inoltre noto che curiosamente la batteria è quasi del tutto abolita. Come mai questa scelta?

Sicuramente il grande cantautorato italiano ha formato la mia anima. Parto dalla trilogia Guccini, De Gregori, De Andrè per arrivare a Massimo Bubola, Roberto Vecchioni, Pierangelo Bertoli, Stefano Rosso, Luigi Grechi, senza tralasciare Claudio Lolli a cui abbiamo dedicato uno dei brani più intensi del disco. Naturalmente non manca l’influenza del combat folk e qui cito i Gang ( i miei padri spirituali) , senza tralasciare l’importanza politica e culturale dei Cantacronache, mi sembra d’obbligo almeno  nominare Fausto Amodei e successivamente Ivan Della Mea e Paolo Pietrangeli. In questo disco la batteria è abolita perché è un lavoro che nasce dalla solitudine del primo lockdown e musicalmente ho voluto ricreare quel clima di isolamento che ho vissuto. Appena è stato possibile sono entrato in studio di registrazione e ho fotografato in musica le dieci ballate del disco.

Ormai sei al terzo disco nel quale mantenendo vivo il concetto di canzone impegnata in tal caso ti sei concentrato sul tema della Ballata, termine citato sia nel titolo dell’LP (“Ballate della grande recessione”) sia nel titolo di quasi tutti i brani. Come mai questa scelta?

È stata scelta la forma di una ballata particolare, la ballata francese in cui eccelse Francois Villon. È stato un richiamo naturale per sottolineare la provenienza popolare del canto e insieme raccontare un mondo in una tenebra tale da somigliare sempre più a una sorta di villoniano medioevo industrializzato.

‘Ballate della grande recessione’ è uscito da quasi un anno, parliamo di aprile 2021, come sta procedendo in termini di vendite? Lo domando perché è abbastanza noto che non sia semplice vivere di musica in un periodo in cui le varie piattaforme e il download selvaggio premiano il più furbo e non chi la musica la produce.

Diciamo che vivere di musica è sempre difficile, non puoi chinare un attimo la testa, devi essere sempre sulla barricata, attivo e resistente. Il disco ha ricevuto un buon successo, continuo a spedire copie sparse in Italia  con dediche e  si vende bene ai concerti, dove ho scelto tutti posti adatti all’ascolto, con  un pubblico attento e motivato. Quanto alle piattaforme sappiamo bene chi comanda e chi decidono di spingere, ma noi che facciamo parte della nicchia abbiamo una schiera di fedelissimi che ancora credono nella copia fisica e in certi valori umani.

Tre dischi in otto anni significano una produzione abbastanza intensa di pezzi e idee. Sai già quando pubblicare il prossimo LP? Ovviamente sempre che vi siano già idee da esplorare.

Facciamo dieci anni, però dobbiamo anche aggiungerci un cd di canzoni per bambini e due dischi con il gruppo folk dei Sambene, dove sono cantante, chitarrista e compositore. Il sintomatico mistero non fa per me, per cui anticipo, credo qui per la prima volta, che il prossimo progetto discografico è già in lavorazione. Sarà una sorta di epopea industriale, una cantata eisensteniana, raccontata da tante voci diverse eppure uguali, sul primo grande sfondamento che il capitalismo post-novecentesco portava a termine in questo paese, in una realtà industriale di massa. Una pagina di storia buia che qualcuno ancora cita come monito e “peccato originale”, vertenza e sconfitta simbolo della riconfigurazione capitalistica dopo il crollo del muro di Berlino e l’abiura delle principali organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio. Si tratta di un concept-album sulla chiusura dello stabilimento Fiat di Termini Imerese nel palermitano. Un omaggio a quattro mani che questo fiorente sodalizio tra me e Salvo Lo Galbo si incarica di portare alla classe operaia d’Italia, d’Europa, del mondo.

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