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Back In Time

Trent’anni fa, “Wish”: l’album che tracciò la linea di confine tra il passato e il futuro dei The Cure

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È ancora possibile parlare di “Wish” a trent’anni dalla sua uscita? Io penso proprio di sì. Il tempo trascorso da quell’aprile del 1992 sembra non averne minimamente scalfito il caleidoscopio,  per nulla impolverato, di rime e sonorità. Ad ogni riascolto, emerge la freschezza di quello che apparve, a tutti gli effetti, un atteso ed effettivo cambio di rotta nella carriera dei The Cure.

L’album vide la luce appena tre anni dopo quello che, tutt’oggi, è considerato il capolavoro della band: “Disintegration”, disco totalmente dark, che non lasciava certo spazio ad episodi pop veri e propri. Proponendosi come sintesi perfetta di tutta la loro discografia, “Wish”, invece, traccia un confine netto tra passato e futuro. Ogni anima della band trova qui voce, in un fusione eterogenea di diverse forme e diversi umori.

Il mio incontro con l’album è avvenuto in una città non mia, ma che profumava di casa e colori a tempera. Un pomeriggio di febbraio, un piccolo negozio di dischi e una copertina rossa. Una linea nera continua fatta di occhi tremolanti intorno ad un cerchio blu. Poche ore dopo, il mio primo ascolto.

“Wish” è un lavoro molto più soleggiato e meno claustrofobico, decisamente orientato verso suoni pop e alternative rock. Se da un lato, però, compaiono motivi facilmente orecchiabili e pieni di speranza, come suggerisce anche il titolo stesso dell’album, dall’altro si aggiungono pezzi più nebulosi, intimi e riflessivi. Un continuo incastrarsi di diverse tipologie di pezzi, tra loro in perfetta armonia ed equilibrio, che ruotano intorno a quello che può essere definito il concept principale dell’album: l’amore e le sue conseguenze.

Il disco si apre col brano Open, che, insieme al successivo High (che fu il singolo di lancio), introducono perfettamente al nuovo mood della band. Arpeggi agili e scanzonati si mescolano alla voce distesa di Robert Smith, tanto da far apparire solo un ricordo lontano le note cupe e color rosso sangue di lavori come “Faith” o “Pornography”. Ciò, in particolare, lo si ritrova in Open, dove le tre chitarre di Smith , Porl Thompson e  Perry Bamonte disegnano magistralmente soundscapes ipnotici, pieni di riverberi e distorsioni.

Come accennato, tuttavia, non mancano le consuete incursioni dark, che contraddistinguono, da sempre, il sound dei The Cure. Con Apart, infatti, ballad malinconica e cupa, si viene nuovamente catapultati in un’atmosfera fredda di abbandono. L’incomunicabilità dei due innamorati, impossibilitati ad amarsi, segue il flusso continuo di parole sussurrate nella descrizione di stati d’animo dolorosi e nostalgici. Gli stessi toni li ritroveremo più avanti nella rassegnata Trust, di gusto più dolce e sognante.

Segue il brano From the Edge of the Deep Sea, vero e proprio delirio psichedelico: quasi otto laceranti minuti di ritmo elettronico, incalzante. Sicuramente tra le tracce più interessanti del disco. Si apre poi quello che potremmo definire un trittico squisitamente pop, in cui è d’obbligo ricordare  Friday, I’m in Love, brano che conquistò la maggior fortuna radiofonica e, probabilmente, tra i più conosciuti della band, insieme a Just Like Heaven e In Between Days.

Terzo singolo estratto, A Letter to Elise, fu definita dallo stesso frontman come una storia di abbandono che si trasforma in un viaggio interiore. Ispirata al romanzo “Les Enfants terribles” di Jean Cocteau, ricalca il senso di isolamento dei due protagonisti, fondendolo insieme a numerosi riferimenti personali, misti al senso di pacata rassegnazione dell’inevitabilità dei cambiamenti. Segue Cut, ultimo vero e proprio sussulto vitale del disco, fatto di chitarre tortuose e ritmi labirintici, che lascia il posto alla desolante To Wish Impossible Things in cui la dimensione onirica, l’idealizzazione, il desiderio di cose impossibili si frantumano di fronte alla schiacciante consapevolezza della realtà, tanto torbida, quanto dolce.  

A chiudere il cerchio di un album senza tempo, troviamo il brano End e il suo costante desiderio di fuggire dalle proprie ombre. “Wish” resta un disco lirico, poetico e toccante, che rivela prepotentemente la maturità dei componenti della band britannica. Un disco in cui, insieme ad atmosfere malinconiche, caratterizzanti la maggior parte della produzione dei Cure, compare anche quello che può essere definito un inno alla vita ed alla gioia di vivere, all’esserci sempre e comunque

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