Qualche settimana fa è uscita “In/Out/In“, breve raccolta di 5 brani strumentali inediti dei Sonic Youth realizzati tra il 2000 e il 2010, giusto poco prima di cessare le attività e lasciarci inconsolabili orfani, e la sensazione è la stessa di sempre. Senza i Sonic Youth la musica che ascoltiamo oggi non sarebbe la stessa, noi non saremmo gli stessi. Non si esagera infatti quando si sostiene che la musica cosiddetta alternativa oggi incorpori quegli stessi tratti che i Sonic Youth hanno definito e ridefinito continuamente nel corso di una carriera che non ha sostanzialmente eguali. Nessuno più di loro ha infatti tradotto i linguaggi più taglienti della controcultura musicale in un linguaggio di fatto accessibile a tutti, non solo ai masticatori seriali di avanguardie e sperimentalismi, ma anche ad ascoltatori di certo mainstream rock.
È innegabile infatti che i Sonic Youth siano i divi assoluti dell’immaginario alternativo, nome e nume di riferimento per chiunque si approcci ad un mondo che oggi più che mai avrebbe bisogno della loro musica. Oggi, che il confine tra ciò che è underground e ciò che è mainstream si è fatto fluido, ma i cui prodotti più che contaminazioni tra due universi distinti e distanti finiscono per essere una devitalizzazione di entrambi, significanti senza significato che durano il tempo di una cieca esaltazione collettiva. Oggi, insomma, avremmo tanto bisogno che qualcuno non solo rialzasse quel muro tra ciò che siamo e ciò contro cui siamo, ma che spiegasse anche come e quando scavalcarlo quel muro.
Durante la loro carriera i Sonic Youth sono stati una luce per chiunque cercasse una guida per scagliarsi contro il conservatorismo, contro chi al passare del tempo e al mutare degli eventi rispondeva con un ammorbante immobilismo. Dagli esperimenti avanguardistici dei primi lavori, figli dell’ammirazione incondizionata per un genio della chitarra come Glenn Branca, che erano un vero e proprio massacro sonoro della coda lunga del punk che cercava un modo per sopravvivere e lo trovò nella violenza incontrollata delle inquietanti suite di questi ragazzi newyorchesi; dalla rivoluzione sonica nata dai solchi di “Bad Moon Rising” (1985) e poi sviluppatasi man mano fino a trovare pieno e splendente compimento nel generazionale “Daydream Nation” (1988), una commistione di rumore e canzone che suonava così naturale da essere eterna; fino alla definizione e alla cristallizzazione di un rock chitarristico totale, che ha trovato l’apice in “Dirty” (1992) prima e “Washing Machine” (1995) poi e che è stato in grado di regalare spunti anche negli ultimi atti, o comunque nei momenti in cui la spia della benzina era sul punto di accendersi: tutto nelle opere dei Sonic Youth sapeva di rivoluzione, nulla era suonato tanto per suonare o per accontentare qualcuno.
Sono tanti e diversi i momenti fondamentali nella formidabile carriera dei Sonic Youth, quasi trent’anni di una parabola splendente e irraggiungibile che ha tracciato solchi indelebili nella musica che ascoltiamo, nel modo in cui la pensiamo e la viviamo.
Chaos is the future
And beyond it is freedom
Confusion is next and next after that is the truth
Nei primi anni ’80 i Sonic Youth, che si erano formati ed erano cresciuti al cospetto di Glenn Branca, erano l’inferno in terra. Forse non quell’inferno rovente fatto di fiamme alte un’eternità e colate di magma che sembrano trascinare via ogni parvenza di bene, quello insomma che siamo stati abituati ad immaginare da sempre; piuttosto un’entità strisciante, demoniaca, l’oscurità che prende forma e parvenze (dis)umane, pronta a strangolare più che a bruciare. Confusion Is Next è l’apice di quello che è a conti fatti l’album d’esordio dei Sonic Youth, che di certo non è il disco migliore della loro discografia, ma sicuramente uno dei più importanti e più memorabili, nonché uno dei lavori più violenti ed estremi mai pubblicati in ambito rock. Il brano, fatto di quei suoni storti e sinistri che negli anni saranno affinati fino alla perfezione, è un inno di anarchia e rabbia, che a leggerne il testo oggi e a perdersi ancora in quella folle cavalcata di clangore e sferragliare chitarristico che ne occupa una buona metà viene in mente il caos delirante e sanguinoso che viviamo ogni giorno.
Hit it, hit it, hit it
Hit it, hit it, hit it
Hit it, hit it
In un’America soffocata dalla reaganomics, ai Sonic Youth non resta che riflettere su due temi eterni come la morte e la follia. “Bad Moon Rising” più che un album, è un viaggio tra deliri e dolori che devono essere sembrati l’unica via d’accesso per la libertà personale. Musicalmente, i solchi sono ancora quelli tracciati da “Confusion Is Sex“, ma nel rumore imperante comincia a percepirsi qualcuno di quei lampi di melodia che farà del sound dei Sonic Youth qualcosa di unico ed inimitabile nei secoli dei secoli. Death Valley ’69 non è forse il brano migliore di un disco che annovera alcuni delle cose migliori scritte dalla band. Ma è sicuramente iconico e rappresentativo di cosa doveva passare nella testa in quel periodo a Thurston Moore e compagni. Ispirata ai massacri della Manson Family, realizzata con la partecipazione di Lydia Lunch, Death Valley ’69 è una discesa negli abissi più oscuri dell’irrazionalità umana, forse una delle rappresentazioni più efficaci e riuscite di uno degli eventi criminali più assurdi e incompresi della storia.
Burning down in the night
Supercool it’s alright
Per molti “Evol” è IL capolavoro dei Sonic Youth, e va bene così. Sicuramente è il momento in cui i nostri introducono in pianta stabile il concetto di canzone tra quelle che finora erano state esplosioni e implosioni di rumore. Fa capolino anche un certo romanticismo tra i brani, che pur rimangono ammantati da un’aura spessa di nichilismo e oscurità rabbiosa. Insomma, “Evol” è un vero e proprio spartiacque nella discografia dei Sonic Youth, ma se vogliamo anche nella storia del rock alternativo. Tra i tanti pezzi che si potrebbero citare punto su Star Power, che è il primo esempio di quell’anima pop – scusate la blasfemia – che ha fatto dei Sonic Youth un’icona infinita di stile indipendente. E poi, al contempo, è il brano che fa per la prima volta di Kim Gordon quello che è Kim Gordon.
Ah, here it comes, I know it’s someone I knew
Teenage riot in a public station
Gonna fight and tear it up in a hyper nation for you
C’è poco da spiegare qui: Teen Age Riot è un inno senza tempo in quel capolavoro senza difetti che è “Daydream Nation“, album generazionale ed epocale, sintesi del progetto dei Sonic Youth, che lavoro dopo lavoro hanno piegato il rumore alla melodia e viceversa, arrivando a codificare e cristallizzare il noise rock nella forma che intendiamo oggi. E non c’è esempio migliore di questo brano – scusate la banalità – un rock anthem che ad ascoltarlo senza per assurdo saperne nulla di nulla potrebbe sembrare sia sfacciatamente mainstream che orgogliosamente indipendente, tanto riuscita è la fusione tra suoni sbilenchi e gusto melodico. E se dentro ci sentite 40 anni di musica indie rock non sbagliate di certo. Ci sarà un motivo, poi, se quando pensiamo ai Sonic Youth pensiamo subito a Teen Age Riot.
I love you, sugar kane, a coming from the rain
Oh, kiss me like a frog and turn me into flame
Non credo che dopo “Daydream Nation” i Sonic Youth avessero bisogno di reinventarsi, ma è successo. D’altronde il grunge – di cui i nostri erano stati chiaramente fonte ispiratrice – aveva stravolto davvero tutto e anche i Sonic Youth dovevano dire la loro, perché già con “Goo” il pubblico si era fatto davvero ampio, e con esso erano cresciuti responsabilità ed aspettative. “Dirty” è forse il disco più smaccatamente rock, nel senso più generalista del termine, dei Sonic Youth, di certo quello che li rende un prodotto accessibile al grande pubblico. Ma la magia, quella che solo i grandi sono in grado di realizzare, è diventarlo grandi senza perdere un briciolo d’identità, qualcuno direbbe senza vendersi, ma vendere non è una voce verbale che si confà alla storia dei Sonic Youth. Dunque, il sunto di questo discorso è Sugar Kane, 6 minuti di un brano irresistibile pieno al solito di rumore ma anche di missili pop, che piaceva, piace e piacerebbe tanto ad un noisers incallito quanto al più occasionale dei fan dei Foo Fighters.
I dreamt that you were my vacation
Woke to find desire and dislocation
Yr always heavy in rotation
Coming on, flirting with the nation
Alla faccia di chi lanciava frecciatine e chiedeva patenti di indipendenza, i Sonic Youth, all’ottavo disco e dopo aver scritto e riscritto le regole del gioco per più di una decade, piazzano un disco inaspettato, diverso da tutto ciò che fin lì avevano scritto. “Experimental Jet Set, Trash & No Star“, che già dal titolo dice molto, è un disco di non canzoni in forma di canzone, in cui trovano spazio bozzetti lo-fi e sferzate di cacofonia, ma anche slanci di psichedelia e post-punk decomposto. Personalmente, e me ne sorprendo ogni volta che lo ascolto, è forse il disco della Gioventù Sonica che preferisco. E forse è anche merito di quel pezzo che c’è in fondo alla tracklist, Sweet Shine, niente più che una ballata agrodolce in cui Kim Gordon mette tutte in fila, ancora una volta.
Look into his eyes and you shall see
Why everything is quiet and nothing’s free
I wonder how he’s gonna make her smile
When love is running wild on the diamond sea
Lo ammetto, “Washing Machine” è uno degli album dei Sonic Youth che mi ha lasciato meno. È sicuramente un album denso, complicato e vivo, quello che è forse davvero il disco della nuova maturità della band (è il primo disco dopo la nascita di Coco Hayley, figlia di Thurston Moore e Kim Gordon), ma tra i suoi solchi ci ho sempre avvertito anche un certo ritorno non richiesto al passato. Tant’è, anche qui, in chiusura di una tracklist impegnativa e comunque ricca di spunti, c’è una perla che merita di essere ricordata. The Diamond Sea è un’immersione di 20 minuti in un oceano onirico senza fine. Non era certo la prima volta che i Sonic Youth si cimentavano in suite così lunghe e stratificate, ma questa volta la sensazione che traspare non è rabbia ma è serenità, un lasciarsi trascinare dagli eventi della vita con forza e consapevolezza. E fa un po’ strano, ma forse è questo che vuol dire diventare adulti per davvero.
Don’t forget the one who gave you the engine of your memory
Do trust
In love or fly for free
Don’t forget the memory
Forse per rispondere a qualche stupida diceria, o forse semplicemente perché i Sonic Youth sono sempre stati così, liberi oltre ogni limite, i nostri impreziosiscono la loro neonata etichetta SYR, fondata nel 1996, con un capolavoro di avanguardia e sperimentazione, che non a caso è anche il primo episodio della collaborazione con Jim O’Rourke, maestro nell’uso non convenzionale della chitarra e da molti annoverato tra i padri fondatori del post-rock. Il disco, dal titolo meraviglioso, è un perfetto compendio per appassionati e scafati del genere, ma anche per chi voglia avvicinarsi ad un mondo che nei suoi vortici di sperimentazione può sembrare complicato e artificioso, ma sa regalare anche tante emozioni primordiali.
Good fortune…
In tema, altrettanto ostico e tortuoso, “Goodbye 20th Century” è un monumentale omaggio alla musica del ‘900, che volgeva al termine. I Sonic Youth, con una sfilza di ospiti (William Winant, Jim O’ Rourke, Takehisa Kosugi, Christian Wolff, Christian Marclay, Coco Hayley Gordon Moore, Wharton Tiers, Pauline Oliveros), re-interpretano in massima libertà (e non poteva essere altrimenti) diversi classici della musica contemporanea, scritti per altro da alcuni degli stessi ospiti. Una raccolta di brani tortuosi, ancora una volta vicini ad un approccio avanguardistico, un esperimento che è forse a un primo ascolto puramente estetico, ma che è anche scosso da una agitazione di fondo, una sensazione inquietante che è forse una premonizione di quello che sarà il nuovo secolo. Six For New Time è l’unico brano inedito del disco, scritto dalla compositrice newyorchese Pauline Oliveros, personaggio chiave dell’avanguardia statunitense, purtroppo mancata nel 2016, per i Sonic Youth.
She takes the plastic pill, she plays “The Weatherman”
She screams “Religion kills more than it saves a man”
She painted filigrees, she was the Acid Queen
She claims “Society is just a fever dream”
Tornando ai dischi “tradizionali”, anche in un album di sostanziali deja-vu come “Murray Street” (ad avercene comunque), che se non stanchezza di certo mette in mostra una certa posizione comoda assunta dai nostri, c’è spazio per almeno un paio di perle da tenere bene a mente. Nel mezzo di una sequenza di brani caratterizzato per lo più dall’eleganza delle trame chitarristiche trova posto Karen Revisited, 10 minuti di deviazioni sonore che dimostrano ancora una volta, se mai qualcuno chiedesse ancora spiegazioni, che quando c’è da giocare con il rumore e far atterrare navi aliene nelle vostre orecchie i Sonic Youth portano a scuola tutti, anche in ciabatte.
When you were gone I was out of my mind
I had a friend who laughed all the time
I had a friend who cried all the time
I had a friend who screamed all the time
I had a friend who lied all the time
Non credo esista anima vivente a cui piaccia sinceramente “Rather Ripped“, album datato 2006, che nei fatti d’altronde non è altro che un lavoro da pilota automatico di una band di immensa classe che si avvicina al tramonto. Eppure ho sempre pensato che un brano come Reena sia uno dei più significativi della carriera dei Sonic Youth. È forse il brano più spensierato dei nostri, con Kim Gordon che, a 50 anni suonati, te la immagini che salta e si dimena come una ragazzina di 18 anni. Ecco, anche in un disco sostanzialmente trascurabile, i Sonic Youth sanno regalare una sfaccettatura nuova e si dimostrano per la prima volta leggeri e divertenti. Lo avreste mai detto?
Molto più dello sbiadito “Eternal“, ultimo Lp della straordinaria esperienza dei Sonic Youth, il vero e proprio canto del cigno è “Simon Werner A Disparu“, colonna sonora dell’omonimo film del regista francese Fabrice Gobert. Pur senza l’ausilio della voce, in questo disco interamente strumentale, Thurston Moore e compagni riescono a comunicare e ad emozionare come nei loro migliori momenti. Tra rumori, feedback, intrecci di chitarra, pause riflessive e sfuriate d’acciaio, la sensazione è di assistere ad un inaspettato riassunto di carriera e di vita, messo in scena con quella classe sopraffina che in 30 anni mai si è spenta. Sono dei Sonic Youth giocoforza diversi quelli di “Simon Werner A Disparu” – mai si erano confrontati col mondo del cinema – ma sono dei Sonic Youth a cui non si può rinunciare. Se cercate un modo per salutarli, questo è perfetto.