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“Burial”, l’ultimo rave prima della fine del mondo

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Viviamo in un mondo ipertecnologico, iper-connesso e meta-stratificato. La terra soffre l’urbanizzazione e il cambiamento climatico, ettari di foreste temono l’avanzamento dell’uomo, km di miniere vengono scavate per estrarre coltan, e da qualche parte nella South London, un misterioso producer si fa cantore disilluso di questi cambiamenti senza darci false speranze.

William Bevan, noto al mondo come Burial, etichetta Hyperdub, è sempre stato schivo e riluttante a mostrarsi al mondo esterno, ma del mondo esterno ne è, tuttavia, un osservatore attento e critico. La sua frammentata produzione è composta di decine di singoli e di soli due album, che alternano momenti di ambient/abstract puro a pezzi squisitamente jungle e dubstep. Burial è da sempre piuttosto libero di esprimersi come vuole, inizialmente per sé stesso, e secondariamente per il pubblico ignaro di chi sia e di come suoni dal vivo (non ha mai fatto nessun concerto). Nessun collegamento col mondo. Lui stesso ammette di non avere contatti con la scena musicale dubstep londinese, “non conosco altri produttori. Non conosco nessuno che fa melodie. Sono solo là fuori. Non faccio parte della scena e non posso alzarmi e fare il DJ. Sono orgoglioso di questa musica, ma non sono un membro del consiglio completamente pagato. Non sono nessuna di quelle cose” (intervista di Martin Clark, marzo 2006). L’unico producer con cui Bevan ha dei rapporti è il rinomato Kode9, che gestisce l’etichetta Hyperdub e segue da lontano l’evolversi del suono “burialese”.

Burial ama, quindi, l’isolamento, attraverso il quale intreccia i suoi ricami inquieti. Scorrono epifanie surreali figlie di un mondo in decadenza (Distant Lights) mentre un treno corre, e corre a mille all’ora, senza aspettare l’umanità. Il suo primo disco omonimo inizia così: intangibile ma così astutamente concreto. Le finestre si appannano di umidità, bit e metaversi si susseguono verso un obiettivo in cui non c’è posto per l’uomo, le strade si animano di omini a testa china sui loro dispositivi iper-collegati (Wounder), poi comincia a piovere (Night Bus) e la realtà, per due minuti e 13 secondi, sussurra qualcosa, di poco udibile ma di estrema sincerità. U Hurt Me, qualche tempo dopo, svela la crepa di fondo. I passi dubstep procedono spediti verso un orizzonte non chiaro all’ascoltatore medio, e sono trascinanti, eccome se lo sono. Quando questi ritmi ancestrali cedono però il posto a momenti di calma cosmica, i sipari si chiudono e ci immergiamo in sogni ad occhi aperti degni del Richard David James di Selected Ambient Works Vol. II (Forgive).

Ho scoperto Burial” solo recentemente, ma ne riconosco ampiamente la portata a livello di impatto musicale per le generazioni a venire. Coloro che vogliono affacciarsi alla finestra durante un temporale dubstep dovrebbero lasciarsi influenzare da Burial, perché il suo primo disco racconta l’ultimo rave prima della fine del mondo.

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