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“Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”: quando il mondo divenne a colori

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Io non c’ero ancora, ma viene raccontato in famiglia che in quel 1967 una zia allora adolescente andò a Londra con i genitori e tornò con l’LP del momento, da regalare al mio ramo della famiglia. Quello stesso vinile ora figura nella mia collezione: “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, originale del 1967, edizione UK, etichetta Parlophone, Mono.

Una dozzina di anni dopo, ero bambino, alla RAI (c’era solo quella), passano il video di Being for the Benefit of Mr. Kite, tratto dal film, con Peter “riccioli d’oro” Frampton e i 3 Bee Gees, intitolato e ispirato al disco dei Beatles. Il film lo potete trovare oggi per esteso sul tubo virtuale ed è una roba imbarazzante, sia dal punto di vista musicale, che cinematografico. Non andai a vederlo, o meglio non mi ci portarono, per fortuna, malgrado le mie richieste. Nessuno che io conosco andò mai a vederlo. Ma quel video accese la mia fantasia e la mia curiosità. Non sono certo che in quell’anno 1979 avessimo già la TV a colori a casa, in ogni caso io lo vidi a colori. Mi parve una cosa interessantissima. Raffigurava i 4 cloni dei Beatles che entravano in un paesotto a bordo di un carrozzone da circo, circondati da saltimbanchi, mentre eseguivano la suddetta traccia. E si vedeva pure Mr. Kite andargli incontro.

Andai a cercarmi il disco portato dalla zia 12 anni prima e intanto consumato dai miei fratelli maggiori. Lo misi sul piatto e un mondo di colori mi si svelò. Ero piccolo, non sapevo l’inglese e mi arrabattavo con un dizionario, seguendo i testi stampati sul retro copertina. Ogni canzone mi raccontava una storia, per quanto la mia comprensione reale fosse molto limitata. Io me la immaginavo proprio la Banda dei Cuori Solitari del Sergente Pepper. Per me era proprio come in quel film di cui avevo visto solo pochi minuti e una sola volta. La vedevo nelle foto del vinile gatefold comprato dalla zia e la vedevo animarsi con la musica che usciva dalle casse.

Per me non c’era dubbio che “vent’anni fa il Sergente Pepper aveva insegnato alla band come suonare”. E che “me la cavo con un piccolo aiuto degli amici”, mentre “sto migliorando tutto il tempo”. Così come mi vedevo Lucia nel cielo con i diamanti, il buco da sistemare, Mr. Kite, Lovely Rita, me stesso a 64 anni. L’apice per me arrivava alla fine e spesso portavo la puntina direttamente a Good Morning Good Morning: irresistibilmente catchy e ritmata con quei galli che danno la sveglia all’inizio e che a me davano la carica. Poi, la reprise tiratissima della title-track e, dulcis in fundo, A Day in a Life che, fin da bambino, avevo capito che era il capolavoro assoluto che è: mi trasportava in un altro mondo, dentro la canzone, con tutta l’immaginazione che si può avere a quell’età. E rimanevo a bocca aperta quando si arrivava alla finale traccia fantasma che magicamente incastrava la puntina del giradischi e suonava a ripetizione. Giusto Within You Without You non mi prendeva, non la capivo, malgrado qualche fratello molto più cresciuto di me cercasse paternamente di spiegarmi il “periodo indiano” di George Harrison. Mi spezzava il ritmo del disco, sia dal punto di vista musicale che da quello dell’immaginazione: non riuscivo ad associarci nulla nella mia testa. La saltavo e basta.

Per me, “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” è un cartone animato, che si svolge davanti agli occhi di chi ascolta. E meno male che non hanno mai pensato di farlo il cartone animato del disco, che ce lo avrebbero rovinato, che già ci basta e avanza l’inverecondo film del 1979. Poi sono cresciuto, ho iniziato ad ascoltare molte cose, tra cui tutto (proprio tutto) il rock classico inglese degli anni ’70. Non starò a fare l’elenco dei mostri sacri del rock classico che hanno detto che, senza Sgt. Pepper’s, loro si sarebbero dedicati all’agricoltura. Il punto lo spiegò molto bene a un certo punto, Bill Bruford, batterista di Yes, King Crimson e molti altri: “Sgt. Pepper’s non si poteva ballare”.

Non era più musica per scatenarsi e dimenarsi con i corpi. Non era più la musica della rivoluzione sessuale e dei costumi avvenuta tra i ’50 e i ’60. Era musica per viaggiare con la mente. Musica fatta da una band, che almeno per quanto riguarda Lennon e Harrison, stava bella fatta di acido. E faceva quello che si fa in questi casi: andava oltre la percezione comune. E dunque poco importa che Lucy in the Sky with Diamonds (LSD) fosse frutto della fantasia grafica del piccolo Julian Lennon e non dei viaggi lisergici di papà John. Le due spiegazioni portano alle stesse conclusioni, che potete trovare formulate dallo scrittore e studioso Aldous Huxley (una delle figure ritratte sulla copertina del disco) nel suo “The Doors of Perception”. Era una ulteriore rivoluzione culturale, che si spingeva ancora più in là.

Oggi ascolto finalmente Sgt. Pepper’s in stereo, magari nell’ottimo remix del 2017 fatto da Giles Martin figlio di George e posso sentire tutta una serie di dettagli che, a quell’età e con quei mezzi, intuivo appena. Mi riguardo il vinile portato da Londra 55 anni fa e rifletto sulla potenza di questo disco. A me ha insegnato il potere evocativo della musica. Che la musica può essere anche un’esperienza figurativa, non solo acustica. La zia, portando il disco da Londra, ha modificato la vita dei destinatari, compresa la mia che oggi non starei scrivendo su queste pagine.

Laddove oggi finalmente posso con certezza affermare quanto già avevo intuito tanti anni fa, cioè che tutto ciò che ha fatto Lennon su questo disco è un capolavoro assoluto: Lucy in the Sky with Diamonds, Being for the Benefit of Mr. Kite, Good Morning Good Morning, una abbondante metà di A Day in a Life. Puro genio visionario qui, in uno degli apici assoluti della sua troppo breve carriera. Mc Cartney fa però la parte del leone quantitativamente, con sette tracce tutte sue. Non sta al livello qualitativo del compare, ma come sottovalutare l’hard-rock della title-track, la linea di basso di Getting Better, il vaudeville di When I’m Sixty Four? E oggi mi piace persino la Within You Without You di George.

Sgt. Pepper’s è stato probabilmente il punto più alto toccato da una band fondamentale per la storia della musica tutta. Lo Zenith di un processo cominciato con “Rubber Soul” e proseguito con “Revolver”. Un processo che voleva mettersi alle spalle i Beatles con i caschetti e i completi neri, che non a caso appaiono in copertina accanto alla Banda dei Cuori Solitari, come se fossero un altro gruppo. Che voleva mettersi alle spalle i concerti con le fan che svenivano e urlavano sotto al palco facendo un casino tale che i quattro scarafaggi non potevano nemmeno sentirsi suonare e, frustrati, decisero di smettere di suonare dal vivo.

Sgt. Pepper’s” è il primo vero sdoganamento della musica, pop o rock che dir si voglia, come forma d’arte completa che non parla solo al basso ventre e alle pulsioni e agli ormoni impazziti degli adolescenti. Un disco che cambiò per sempre il mondo, non solo della musica e certamente non solo della mia famiglia: il mondo divenne a colori.

P.s.: nel caso ve lo steste domandando, il mio disco UK del 1967, Mono, non vale nulla, ho controllato su Discogs. Ma solo in termini di euro.

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