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Polvere di sberle: i 30 anni di “Angel Dust”

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Fuck man! Yeah, sure, we can compare ourselves to God!

Mike Patton a Kerrang!, 1992

Quando sei anni fa ho compiuto trent’anni mi sono sentito vecchio, demolito e pronto al camposanto. Diciamocelo, chi non l’ha fatto? “Angel Dust”. Sì, non è una persona, però è un’entità e i suoi trenta-fottuti-anni non li sente. Tanti album patiscono il passare degli anni: il suono diventa stantio, soprattutto per quanto riguarda le sezioni ritmiche, o magari sono così tanto immersi nel proprio genere d’appartenenza che là restano, inchiodati per sempre. Chiaro, li amiamo, però in cuor nostro sappiamo quanto siano siano piegati sotto il peso del tempo. Li facciamo suonare, ce li teniamo stretti al cuore non volendoli vedere soffrire per gli acciacchi, ma sappiamo. “The Real Thing” è tra questi. Non frignate, non gridate, non lagnatevi. Non nascondetevi.

I Faith No More stessi sapevano. Ne avevano le palle piene di quella roba. Mike Patton su tutti ne aveva avuto abbastanza dell’etichetta “funk metal”, lo odiava e non voleva averci nulla a che fare, in previsione delle stronzate di Kiedis, che già piagnucolava di certi comportamenti rubati ai suoi poveri cari RHCP, sbagliando e dimostrando che “The Real Thing” non lo ha proprio nemmeno mai ascoltato. Gioia cara. Ad ogni modo Roddy Bottum e soci non ne volevano più sapere. Tre anni di tour portando a zonzo quei pezzi (e quelli prima) erano sufficienti per far scoppiare loro le palle ed era ora di mostrare a tutti che i FNM non erano la solita band accomodata sul carrozzone del crossover e dell’alternative (rock o qualsiasi altro genere che possa stare bene accompagnato dall’aggettivo in questione), quindi si sono armati per dare fastidio alla casa discografica, ai fan, pure a se stessi, ché questa band non era questione di fratellanza o tutte queste altre cazzate da fricchettoni tornate di moda ciclicamente, soprattutto nei Nineties. Era una questione di stare nella Massima Serie del Rock e comunque pulirsi il culo con le regole. Prendere o lasciare. E ci han provato alla Warner (le cui conglomerate Slash e Reprise facevano parte) a far mollare loro l’osso, senza vincere sebbene vincendo, perché 3 milioni di copie vendute in tutto il mondo in tre decadi non è roba da tutti. Non accade ora e non accadrà mai più. Ma di questi tre milioni, le prime centinaia di migliaia di compratori chissà se ne furono contenti, quando anche uno dei membri della band (Jim Martin) il disco non lo sopportava, e difatti fu l’ultimo, per lui.

Angel Dust” non è stato il primo album che comprai dei FNM, anzi, iniziai dal successivo “King For A Day…” che per molto tempo è stato il mio preferito: c’era Trey Spruance, era duro e veloce. Col passare degli anni mi sono reso conto che non c’era la magia necessaria a farlo volare, come un tiro di polvere d’angelo del ’92, quella cosparsa sul terzo full del gruppo. Lì risiedeva tutto il potenziale, l’idea che una band da stadio (in tour con Metallica, GNR, Soundgarden, Alice In Chains) potesse comportarsi come uno sparuto gruppetto di stronzetti che ama musica “non-da-stadio” e la infila dove meno te l’aspetti, tipo un sample da Wild Women With Steak-Knives di Diamanda Galas e un altro dal grande nemico di Stalin Šostakovič (cosa da ridere perché nel libretto le brutte facce dei ragazzi sono incollate su soldati dell’Armata Rossa in posa dinnanzi al Cremlino) però suonato dal Kronos Quartet, cose indigeribili per un pubblico massimalista, quello che agli stadi ci va eccome e che vuole le rockstar. Ma da queste parti la musica e gli ascolti sono cresciuti assieme alle proprie idee, e la decisione è quella di inserirla in quello che sarà un instant classic, forse tra i più potenti di quell’epoca d’oro, miniera di millemila prodotti da classifica che da classifica non sono.

È qui che Patton dà vita al metodo che lo ha seguito per molti anni a venire, quello di mettere assieme le parole a seconda di quanto suonassero bene una in fila all’altra, drenando ogni senso dai brani, pur incarnando una marea di personaggi. Pensavo fosse nei Mr. Bungle che Mike indossasse più panni dei suoi soli, invece fu qui e si sente. Folle e disturbato, si toglie il sonno per scrivere Caffeine, pensa a quanto volesse vincere tutte le competizioni da ragazzino rendendosi conto di non poterlo fare (very americano, chissà quanto vero) per A Small Victory, lo humor nero che permea Crack Hitler, che fa persino ghignare Billy Gould il quale non si capacita di come un album platinato possa contenere un pezzo che parla di uno spacciatore di crack di colore che si crede il Fuhrer. O ancora Malpratice, con tutta la sua verve death metal sia verbale che sonora (i FNM furono visti indossare t-shirt dei Carcass e non a caso scrissero un pezzo su una tizia che adora essere operata da un chirurgo), per poi vederla rifatta quando il cantante fronteggiava il pubblico assieme ai Dillinger Escape Plan come chiusura di un cerchio, oltre la scopiazzatura che tutti ben sentite nel coro di cheerleader di Be Obscene di un certo Marilyn Manson. Midlife Crisis (un tempo conosciuta come Madonna) oggi non passerebbe il “non-offensive detector” e verrebbe massacrata al volo.

Ed eccomi qui, a pensare ai vent’anni di presenza di “Angel Dust” in casa mia e dei trenta in quelle di tutto il resto del mondo. Questi articoli li facciamo in spregio all’idea di rétro presa a calci da Reynolds (al pari di Patton uno dei tanti miei eroi), eppure sembra non se ne possa fare a meno. Perché? Mah, parliamo come dei BOOMER, senza esserlo, dicendo che oggi le storie non si scrivono più. Si filmano e si piazzano sui social, siamo tutti protagonisti e quindi non c’è più troppo da raccontare in musica. No, nemmeno quello, non si è più attenti a quel che si racconta in musica. Siamo imbottiti. Tra trent’anni ancora, però, ascolteremo ancora “Angel Dust”, chiedendoci come mai nessun altro ne abbia scritto uno, in tempi più recenti. E ci diremo da soli, allo specchio “OK BOOMER”. Sì, bomber, va bene così. Va bene riascoltare “Angel Dust”. Va bene celebrarne questi sei lustri e quando saranno il doppio o il triplo andrà bene uguale.

Anche se in fondo non scriviamo questi articoli pieni di nozioni già note solo per far scendere la lacrimuccia ai vegliardi che ancora sghignazzano sulla copertina del singolo di Everything’s Ruined, no. Speriamo sempre che i giovini scoprano album come questo e un giorno siano loro a ripensare a quando li comprarono. Magari includendo quelle idee nelle loro vite iperconnesse.

Da Be Aggressive a Be Positive è un attimo.

P.S.: alle 19 fate come noi e cliccate QUI e sparatevi il documentario che quei matti di “Faith No More Followers” hanno messo assieme per questi trent’anni maledetti.

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