Impatto Sonoro
Menu

Back In Time

“Unknown Pleasures”: la vita (e la morte) dei Joy Division

Amazon

The Velvet Underground & Nico, The Stooges, New York Dolls e Ramones: cos’hanno in comune questi dischi? Oltre al fatto di essere gli omonimi esordi delle rispettive band, la costante che li accomuna è un sostanziale fiasco in termini di vendite. Sono stati rivalutati nel tempo, fino ad assurgere al rango di leggenda. Lo stesso discorso si può fare per alcuni concerti. Gli happening al Café Bizarre non radunavano certo folle oceaniche – e spesso creavano non pochi problemi al proprietario – celebre l’aneddoto su The Black Angel’s Death Song – così come intorno al CBGB gironzolavano pochi eletti. Eppure non parliamo di fenomeni di nicchia, bensì di rivoluzioni sociali e – di conseguenza – musicali, di rovesciamento totale dello status quo.

Non a caso ho citato quegli esempi: gran parte della rivoluzione iniziata già nella prima metà degli anni ’70 si concentra in diverse zone degli Stati Uniti ed ha a che fare con il fenomeno punk. Straccioni, reietti, emarginati che ad un certo punto decidono di rifiutarsi di percorrere a testa bassa la strada sudicia e puzzolente dell’oblio, e reagiscono. Iniziano ad occupare spazi deserti, sacche di agibilità sociale che non interessano a nessuno. Poi pian piano si spostano ai margini, fino a convergere verso il centro delle grandi metropoli americane. I pionieri di New York e Detroit, gli emuli di Los Angeles, fino ad arrivare ai prodotti postumi, un’onda lunga dalla quale nascono l’hardcore di Chicago e il grunge di Seattle: alla base di tutto c’era sempre il punk.

Da quest’altro lato dell’oceano, mossi dal solito desiderio di avere la meglio sui cugini yankees, a metà degli anni ’70 i britannici iniziavano ad ascoltare quei suoni con discreto interesse. Il primo a decidere di mettere in pratica la lezione statunitense fu Malcolm McLaren, un non-musicista, non-cantante, ma eccezionale conoscitore di musica. All’inizio degli anni ’70 è in America per un viaggio d’affari, si imbatte in un concerto dei New York Dolls e se ne innamora a prima vista. Diventa anche il loro manager – o forse consulente d’immagine – ma oltre a ciò, studia per capire come esportare quel fenomeno anche nella sua Londra.

Malcolm è legato sentimentalmente alla stilista Vivienne Westwood. Nella City gestiscono insieme un negozio di abbigliamento all’inizio chiamato Let It Rock, i cui articoli richiamavano lo stile di Richard Hell dei Television (e già questo deve suonare come un avvertimento). Successivamente lo stile si modifica, si accentua, così la piccola boutique cambia nome in SEX: pantaloni in pelle, magliettine strappate, calze a rete, insomma tutto l’occorrente per attirare clientela di un certo tipo.

Tra i tanti avventori c’è un ragazzo che si chiama John Lydon. Veste con jeans strappati, ha i capelli verdi, i denti marci, indossa spesso una t-shirt dei Pink Floyd sulla quale ha aggiunto con il pennarello la scritta I HATE. Bernie Rhodes, uno degli assistenti di McLaren che nel frattempo tornato a Londra, glielo presenta ed è quella la scintilla che dà fuoco al punk in UK: i neonati Sex Pistols – nome evidentemente mutuato da quello del negozio – ne saranno i tedofori europei, i nuovi New York Dolls.

A differenza degli USA, paradossalmente, il mercato inglese è più difficile da penetrare. I britannici in termini musicali sono storicamente conservatori, tuttavia il momento sembra propizio perché i fasti della stagione prog sono agli sgoccioli e fenomeni come il kraut-rock (in tutte le sue declinazioni) e la discodance non sembrano attecchire più di tanto sugli autoctoni. Ecco quindi che entra in gioco Malcolm, che inizia a promuovere i suoi Sex Pistols in giro per la capitale.

Un altro difetto del Regno di Sua Maestà è che al di fuori di Londra la musica si muove a fatica. Beatles a parte, una grossa fetta della cosiddetta prima British Invasion ha origini nella Greater London. I nomi sono tanti, si va – in rigoroso ordine alfabetico – dai Black Sabbath a Bowie, dai Cream a Elton John, passando per Led Zeppelin, Manfred Mann, Queen, The Kinks e, scusate se è poco, i Rolling Stones. Al tempo stesso, è difficile prendere una band di Londra e portarla al successo in zone più remote del paese, specie quelle in cui c’è scarsa cultura musicale.

A febbraio del ’76, quando non erano nemmeno iniziate le registrazioni di Never Mind The Bollocks, i Pistols danno vita alla consueta performance in uno dei tanti localini sparsi per la capitale britannica. Direttamente da Manchester giungono due giovani che sono lì solo perché hanno letto su una rivista il live report di un precedente concerto della band di John Lydon, che nel frattempo ha adottato come pseudonimo Johnny Rotten. Quei due ragazzi si chiamano Howard Devoto e Pete Shelley, che dalle loro parti avevano idea di formare una band a nome Buzzcocks, ma mancavano i componenti e, soprattutto, concetti di musica. Come una folgorazione improvvisa, appena i Sex Pistols attaccano a schitarrare, Howard e Pete realizzano due idee. Primo, i Buzzcocks suoneranno quella roba lì e secondo, Rotten e la sua band devono essere presi di peso e portati a Manchester.

L’occasione si materializza il successivo 4 giugno, in una specie di bettola chiamata Lesser Free Trade Hall. Siamo nel nord dell’Inghilterra, a metà anni ’70, ma la scena avrebbe potuto svolgersi tranquillamente a New York cinque o sei anni prima. Come una serata qualsiasi al CBGB, quella sera c’erano quaranta, forse sessanta persone, che sono lì per vedere una misconosciuta band che viene da Londra – i Sex Pistols – il cui concerto è anticipato dagli indomiti Devoto e Shelley, che all’ultimo momento hanno raccattato altri due componenti e li hanno convinti ad esibirsi a nome Buzzcocks.

Perché, dunque, quella seratina apparentemente insignificante al Lesser Free Trade Hall di Manchester è entrata nella leggenda? Una delle regole auree del punk è che non importa quanta gente c’è a vederti, bensì chi sono. E non parliamo di personaggi già famosi, ma di gente comune che capisce dove si trova, è consapevole che il punk funge da veicolo attraverso cui inviare un messaggio. Non resta quindi che aspettare che il concerto finisca, uscire là fuori e darsi da fare. In mezzo a quella piccola orda di scalmanati ci sono Steven Patrick Morrissey, Mark E. Smith e Mick Hucknall, che nel giro di pochi anni formeranno rispettivamente i The Smiths, i The Fall e i Simply Red.

Ma ci sono anche Bernard Sumner e Peter Hook, amici da sempre. Quest’ultimo, colpito in modo irreversibile dalla performance, il giorno dopo si fionda in un negozio di strumenti musicali per comprare un basso. Giusto il tempo di trovare un batterista, il primo fu Terry Mason (anche lui presente al Lesser), i neonati Stiff Kittens iniziano a suonare e a comporre seguendo la lezione ricevuta dai Pistols nella notte di Manchester. Subito dopo la band inizia la sua breve ma complessa trasformazione.

Con il desiderio di trasformarsi in un quartetto, Sumner, Hook e Mason cercano un cantante, trovandolo inizialmente nel loro ex compagno di scuola Martin Gresty. Chiamato a lavorare come operaio in una fabbrica, Martin declina l’invito prima ancora di iniziare, lasciando così libero il posto da vocalist. All’annuncio pubblicato dai tre nel locale negozio di dischi di proprietà della Virgin risponde Ian Kevin Curtis, classe 1956. Non gli fanno nemmeno il provino, ai ragazzi Ian piace a pelle.

Originario di Stretford, una manciata di miglia a sud ovest di Manchester, Ian è figlio della working class di Macclesfield. A scuola eccelle in filosofia e ama le materie letterarie, soprattutto la poesia. Vince una borsa di studio nell’antica e prestigiosa King’s School, ottenendo anche diversi premi per la sua capacità di comporre versi. A 12 anni inizia a sviluppare l’interesse per la musica: gli piace Jim Morrison ma adora David Bowie, ed è proprio dal titolo di una canzone inserita nell’album “Low” che nasce Warsaw, il nuovo nome della band. Sostituito Mason con Tony Tabac, i quattro entrano ufficialmente nella scena mancuniana attraverso alcuni concerti, di cui uno (maggio 1977) a supporto dei Buzzcocks.

A differenza dei “vecchi” Stiff Kittens, i Warsaw iniziano ad avere quella maturità che consente loro di scrivere testi e musicarli nel modo in cui ormai si è deciso da tempo. Forti dell’abilità di Ian di giocare con le parole e con il contributo di Stephen Morris – che sarà il batterista definitivo – la band incide l’EP in quattro pezzi “An Ideal for Living”. Data la crescente popolarità che la band stava riscuotendo nella sempre più florida realtà underground di Manchester, per evitare di confondersi con un gruppo dal nome simile (i Warsaw Pakt), Curtis decide di cambiare il nome in Joy Division, il nome che nei lager nazisti designava, nel romanzo “La casa delle bambole” di Ka-Tzetnik 135633 (Yehiel De-Nur), le prigioniere destinate all’intrattenimento sessuale di soldati tedeschi in partenza per la campagna di Russia.

A maggio del 1978 arriva la svolta. La RCA propone alla neonata band di incidere alcuni brani, promettendo a cose fatte di produrre un vero LP. I quattro ci stanno, registrano diverse sessioni, ma al momento di concludere sentono che qualcosa non li convince: non è quella la musica che deve venire fuori dalle casse. Occasione forse sprecata, la RCA è un treno che passa una sola volta nella vita, ma dietro l’angolo c’è il punk, con le sue storie, i suoi spiriti e il suo destino. Il nastro così si riavvolge, riportando i nostri a quella notte d’estate al Lesser Free Trade Hall. Insieme a loro, a pochi metri dai Sex Pistols c’era anche Tony Wilson.

Tony era lì con il suo amico Martin Hannett. Come i (non molti) presenti quella sera, fu rapito da quelle sonorità così nuove ed incendiarie, ma diversamente dalla quasi totalità della platea non pensò formare una band, magari imparando a cantare o suonare uno strumento: il suo obiettivo era quello di raccontare e promuovere la musica del futuro. Passa solo un mese, infatti, e su Granada Television parte il programma So It Goes: coadiuvato dal giornalista Clive James e dall’attore comico Peter Cook, Tony fa recensioni, stila classifiche, analizza i fenomeni del momento e dedica uno spazio alla musica del passato. Alla puntata numero 9 della prima stagione, il 28 agosto del 1976, Wilson ospita i Sex Pistols, alla loro prima apparizione in Tv.

Il cerchio si chiude nei primi mesi del 1978 quando, chiusa l’esperienza di So It Goes, Tony e Martin decidono di dar vita a un altro programma, Granada Reports, ma soprattutto di fondare la Factory Records, un’etichetta indipendente in grado di dare spazio all’avanguardia musicale inglese. Ad aprile di quello stesso anno, Tony ascolta per la prima volta i Joy Division al Rafters Club di Manchester: in men che non si dica Curtis e soci firmano un contratto con la Factory, che prevede alla voce promozione un’esibizione nello show di Wilson. Il primo passo insieme nella Factory i Joy lo compiono inserendo nella compilation promozionale “A Factory Sample” – prodotta per il lancio della label – i brani Digital e Glass. La produzione è naturalmente affidata a Martin Hannett.

Alle orecchie di Hannett i Joy Division non sono punk. La voce grave e il tono gelido di Ian Curtis, le rasoiate chitarristiche di Bernard Sumner, le bassline ossessive di Peter Hook e quel picchiare sulle pelli così preciso e violento di Stephen Morris convincono Martin a cambiare registro. I Joy Division non sono i nuovi Sex Pistols, non ne rappresentano in alcun modo la prosecuzione artistica, né tantomeno quella poetica. La band di Manchester è qualcosa di diverso, innovativo, che non urla slogan da un palco. Se proprio c’è da fare un riferimento, la creatura di Tony Wilson è assimilabile ai Velvet Underground perché in modo sorprendentemente introspettivo racconta di inquietudine, depressione, droga, manie di ogni tipo, il tutto su un tappeto che è punk per struttura, ma che va trattato a livello sonoro in modo diverso. Hannett e i suoi cuciono quindi un vestito sonoro su misura al sound dei Joy Division, che a differenza di come avrebbe fatto un qualsiasi fonico di epoca punk punta a comprimere i suoni e ad esaltarne i bassi. Il risultato finale è oscuro, tenebroso, tetro, un teatro degli orrori dove i protagonisti sono Ian e la sua testa infestata da demoni.

Il 1979 inizia col botto. La rivista musicale NME, quella sulla quale Hook e Sumner avevano letto il live report dei Sex Pistols, che li aveva poi convinti ad andare a vederli dal vivo, chiama Ian Curtis per comunicargli che la copertina del numero di gennaio sarà dedicata a lui. Contestualmente, la band viene invitata negli studi della BBC a registrare una sessione per il leggendario programma radiofonico di John Peel. Qualche settimana dopo i Joy Division e i Cure condividono lo stesso palco, quello del Marquee Club di Londra.

Contestualmente, e stavolta in modo convinto e definitivo, i quattro entrano negli Strawberry Studios di Stockport per incidere il loro primo album. Le sessioni durano poco più di due settimane, durante le quali Hannett si concentra più che mai per dare un volto musicale ai tormenti interiori di Ian. La copertina è invece selezionata dal grafico della Factory, Peter Saville. E’ tratta dal libro “The Cambridge Encyclopedia of Astronomy” e rappresenta le immagini prodotte da una serie di onde elettromagnetiche generate dalla prima pulsar mai scoperta, la PSR B1919+21.

Il 15 giugno del 1979 esce quindi “Unknown Pleasures”, che inizia con Disorder, dai canoni apparentemente punk ma innestata di micro-ondate elettroniche che da subito impongono virate sonore decisive. E il seguito è ancora meglio in termini di imprevedibilità: Day Of The Lords è un lento che suona maledettamente doom, qualcosa di inconcepibile per chiunque dalle parti di Londra. E non è da meno Candidate, in cui la voce metallica di Curtis sembra la sublimazione di un corpo che vaga di notte, senza meta, in mezzo a una palude.

Insight si apre con elementi di musica concreta: un cancello arrugginito sembra aprirsi su chissà quale scenario, ma elementi di elettronica e mid tempo fanno tornare il discorso alle prime note del disco. In un continuo susseguirsi di trovate spiazzanti, ecco le chitarre registrate al contrario di New Dawn Fades, che nella sua struttura centrale tanto deve ai demoniaci riff che Tony Iommi creava una decina d’anni prima. She’s Lost Control – dedicata a un’amica di Ian, morta di epilessia – è invece un unico nucleo-prototipo di synth e new wave, sonorità che esploderanno nel giro di pochi anni.

Il punk della prima ora si vede in tutto il suo splendore in Shadowplay, mentre in Widerness si assiste a una breve cavalcata per la quale il leggendario Claudio Scaruffi coniò il termine voodoo-billy. Ancora punk alla massima potenza con Interzone, prima della chiusura affidata alla lunga e lenta agonia di I Remember Nothing.

L’uscita di “Unknown Pleasures” segna il successo internazionale dei Joy Division. La Factory fiuta l’ispirazione dei quattro di Manchester e propone loro di registrare subito il nuovo disco, ma non è tutto: nonostante una promozione carente – a causa degli evidenti limiti organizzativi di una neonata label indipendente – qualcuno negli Stati Uniti ha sentito parlare di loro. Wilson comunica quindi la partenza per un tour oltreoceano.

Tuttavia, nemmeno l’uscita di Closer” – secondo e ultimo album a nome Joy Division – e la partenza per il tour internazionale riuscirono a scacciare i fantasmi dalla testa di Ian. In crisi matrimoniale irreversibile con la moglie Deborah – sposata qualche anno prima – il leader dei Joy Division versa in condizioni fisiche sempre più precarie. Si sente solo, depresso, spesso durante le prove o, peggio, nel bel mezzo di un concerto, perde conoscenza a causa di violente crisi epilettiche. Prima della partenza per gli States chiede un’ultima volta alla sua ormai ex consorte di ritirare la richiesta di divorzio, ricevendo il solito rifiuto da parte di lei.

A mezzogiorno del 18 maggio del 1980, fu proprio Deborah a ritrovare il corpo senza vita di Ian, che di mattina presto si era introdotto in casa di lei e si era impiccato in cucina. Aveva 23 anni. Esattamente un mese dopo verrà pubblicato il singolo Love Will Tear Us Apart, il suo testamento musicale e sentimentale. La frase verrà poi incisa sulla lapide della sua tomba.

Ferma restando la cifra stilistica inarrivabile dei Joy Division, Curtis e soci condividono con una ristretta cerchia di artisti e band i prodromi di quella che sarà la scena darkwave, dominante nella prima metà degli anni ’80. Gente come Gary Numan, i Bauhaus, The Cure, Siouxsie and the Banshees, gli stessi ex componenti orfani di Curtis che nel frattempo sono diventati New Order, faranno da apripista a diverse inclinazioni operate, ad esempio, da The Chameleons, Dead Can Dance e Cocteau Twins. I vari sottogeneri assumeranno altre forme tra fine anni ’80 e inizio ’90, espandendosi geograficamente nell’Europa continentale e persino negli Stati Uniti, fondendosi insospettabilmente con il metal, la neoclassica, l’elettronica sperimentale e lo shoegaze.

Ian Curtis, dal canto suo, resta fermo a guardarci, compiaciuto, da una terrazza costruita sulla sua stella. Ogni tanto ci ricorda che l’amore (di nuovo) ci farà a pezzi. Ma la musica, soprattutto quella dei Joy Division, ci rende immortali.

Piaciuto l'articolo? Diffondi il verbo!

Articoli correlati