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Moor Mother – Jazz Codes

2022 - Anti-
free jazz / alternative hip hop / R&B / sperimentale

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Tracklist

1. UMZANSI (feat Black Quantum Futurism featuring Mary Lattimore)
2. APRIL 7th (feat Keir Neuringer)
3. GOLDEN LADY (feat Melanie Charles)
4. JOE MCPHEE NATION TIME INTRO (feat Keir Neuringer)
5. ODE TO MARY (feat Orion Sun & Jason Moran)
6. WOODY SHAW (feat Melanie Charles)
7. MEDITATION RAG (feat Aquiles Navarro & Alya Al Sultani)
8. SO SWEET AMINA (feat Justmadnice & Keir Neuringer)
9. DUST TOGETHER (feat Wolf Weston & Aquiles Navarro)
10. RAP JASM (feat AKAI SOLO & Justmadnice)
11. BLUES AWAY (feat Fatboi Sharif)
12. BLAME (feat Justmadnice)
13. ARMS SAVE (feat Nicole Mitchell)
14. REAL TRILL HOURS (feat Yung Morpheus)
15. EVENING (feat Wolf Weston)
16. BARELY WOKE (feat Wolf Weston)
17. NOISE JISM
18. THOMAS STANLEY JAZZCODES OUTRO (feat Irreversible Entanglements & Thomas Stanley)


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L’ascesa di Moor Mother è di quelle che si possono definire a ragion veduta inarrestabili. Dal 2016 non ha accennato ad avere un attimo di pace, perché il mondo in cui vive Moor Mother non ha pace, anzi, si prepara sempre e di continuo al confronto e con la sua arte cerca di rovesciare l’essere accerchiati con l’accerchiamento, soverchiando un momento storico insensato, in cui tutto è come è sempre stato. Anche nel mondo della musica, ché anziché muoversi verso il futuro ha finito per impantanarsi nella semplice voglia delirante di ristampe e album stampati di fresco che paiono ristampe di artisti sepolti (spesso letteralmente) da tempo immemore.

Recuperare linguaggi e modellarli su una dialettica propria e originale è un lavoro che a Camae Ayewa riesce molto, molto bene, anzi, la sua maestria è quasi inarrivabile. Il mondo lo ha notato la prima volta con “Analog Fluids Of Sonic Black Holes”, terzo album ma primo ad uso di trampolino di lancio verso l’esterno, un disco in cui il rumore aveva una sua valenza linguistica poiché la lingua (letterale e astratta) andava a battere sul male, che è un passo oltre il dolore. “Black Encyclopedia Of The Air” è testa di ponte che traghetta signicanti e significati verso “Jazz Codes”. Il titolo è la chiave di volta che apre la serratura del futuro, come un calcio nel culo ci sbatte al di là della soglia.

Il jazz è stato un ariete, uno scudo, un’arma e un tempio e, infine, si è incamminato verso quello che il pubblico voleva che fosse: musica di sottofondo. Non sempre però si è stati in grado di addomesticarlo e prima i grandi, le teste di serie, e poi realtà nascoste nell’oscurità sono riuscite a tenere viva la fiamma di un modo di intendere non solo la musica, ma anche la società. Moor Mother lo codifica, ne prende gli estremi e li tira a sé, districa una matassa free e la confonde con melodie reali, un tempo solo accennate che qui fioriscono come fiori di ciliegio in primavera, con un tocco di veleno come i petali di rosa di Eliogabalo, perché non sempre ciò che è cantabile è leggero, a volte pesa un miliardo di tonnellate perché è giusto che sia così. I codici vengono tradotti in un elenco di leggende in forma di persone e luoghi, la voce, anzi, le voci sua e di tutti gli ospiti qui presenti, sono schegge, cantano, intonano, sono innodiche e poi parlano, gridano, digrignano i denti, vivono in Louisiana e si svegliano in piena notte a New York, trasmigrano dal soul al blues e si accovacciano sul rap, lanciandolo in aria, alterandone la composizione basilare.

Gli strumenti stessi sono frazionati, viaggiano appena sotto la superficie imbastendo la struttura di una chiesa abbandonata in cui l’R&B vive in solitudine fintanto che non trova anime gemelle a unirsi sotto uno stesso tetto sfondato da cui filtrano fiotti di luce rumorosa, e tutto sembra crollare mentre Camae impila barre su barre mentre il ritmo si inginocchia sulle lunghezze d’onda d’Oltroceano di Bristol, in un momento che più distante da questo non potrebbe essere, eppure così simile, perché, come dicevamo prima, nulla cambia, niente passa. Viene codificato, semmai, lo si legge attraverso lenti sempre diverse e quella di Moor Mother è una lente impietosa, che trasuda dolore e ascensioni, un blues che umbratile che strappa il fiato, sbalzato da pulsioni digitali avvolgenti e irrefrenabili, tra fiati sotto spirito che evaporano per condensarsi in nubi cariche di fulmini e tempesta incarnata in una lingua affilata come una lama forgiata nel Mithril.

Anni or sono ebbi a che ridire con un docente universitario di Storia della musica la cui visione del jazz lo portava quasi a definirlo come povero timbricamente, quasi un giochetto da quattro soldi. Se già all’epoca gli portai esempi per dimostrare la sua pochezza davanti ad una classe annoiata, oggi gli sbatterei sotto il naso “Jazz Codes”. Forse non lo zittirei pubblicamente, ma, nel buio della sua triste casa polverosa, forse un pensiero o due glielo scucirei. Sarebbe una vittoria.

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