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“Ten” dei Pearl Jam: i ragazzi di Seattle alla conquista del mondo

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I critici musicali, i giornalisti, chi scrive su una fanzine, sono generalmente divisi su tutto. Quell’artista è bravo o sopravvalutato? Quel disco è un capolavoro o una truffa ben architettata? Tra le tante diatribe che popolano il mondo degli appassionati di musica c’è quella sul grunge. Cos’è il grunge? Un genere, un sotto-genere, un movimento culturale che ha indirizzato la musica verso una direzione ben precisa o il suo esatto contrario. Sono queste le definizioni più diffuse, tutte valide, di ciò che alternativamente viene chiamato Seattle sound. Con la ferma volontà di non entrare nel suddetto dibattito, una chiave di lettura – del tutto personale, quindi tranquillamente opinabile – vede la scena di Seattle spaccata temporalmente in due. Esistono un prima e un dopo e lo spartiacque dell’intera vicenda è la fine dell’estate 1991.

Una serie di accadimenti sociopolitici, uniti al fervore culturale di una città considerata metropoli per dimensioni ma dai connotati ancora incontaminati, fanno sì che Seattle si trasformi in un laboratorio a cielo aperto. Dal punto di vista musicale, in città c’è grande passione per il rock, in tutte le sue declinazioni, un amore che trasforma in evento ogni concerto di band famose – ad esempio il live dei Sonic Youth al Gorilla’s Garden del 1985, pochi mesi prima dell’uscita di “Bad Moon Rising” – e che sfocia nel desiderio di tanti giovani del posto di formare una band. 

Il primo esempio pratico, insieme ai Soundgarden di Chris Cornell, è rappresentato dai Green River, band che si forma immediatamente dopo il concerto dei Sonic: i prodromi del grunge sono evidenti nei due EP “Come On Down” (1985) e “Dry As A Bone” (1987) e nel primo (e unico) album “Rehab Doll”, datato 1988. Un disco che risulterà fondamentale per la generazione immediatamente successiva e che determinerà il successo commerciale della Sub Pop, una piccola etichetta indipendente con sede a Seattle diretta dai due autoctoni Bruce Pavitt e John Poneman, che in questo modo vedono realizzarsi il loro sogno di creare un circuito musicale intorno a quella fetta dello stato di Washington.

Tuttavia, “Rehab Doll” è il testamento dei Green River, sostanzialmente perché nella band è ormai impossibile la convivenza tra due anime: quella tendente al punk formerà i Mudhoney, mentre i componenti più inclini all’hard rock, il bassista Jeff Ament e il chitarrista Stone Gossard, daranno vita ai Mother Love Bone, la cui breve ma fondamentale esistenza sarà funestata dalla morte per overdose del leader Andy Wood. Ament e Gossard decidono di comune accordo di sciogliere il gruppo, non prima però di aver pubblicato Apple, un piccolo capolavoro che ci porta dritti a un anno esatto dal compimento della rivoluzione.

Una rivoluzione che nella testa di Pavitt e Poneman aveva altri connotati. I ragazzi di Seattle sono genuini, veraci. Vestono con jeans, scarpe da boscaiolo e camicie di flanella non perché vogliano imporre una nuova moda: mettono semplicemente gli stessi abiti dei genitori e dei fratelli maggiori, lumberjack-men che si guadagnano da vivere grazie agli alberi che circondano la città. Se decidono di fare i musicisti è giusto che i dischi li producano due del posto, magari coadiuvati da uno come Jack Endino, gente cioè che ha imparato a conoscere i meccanismi del mercato discografico ma che allo stesso tempo ha i piedi saldamente piantati sul suolo di Seattle.

Ma l’industria musicale, si sa, non ha scrupoli e al contempo è facile immaginare che non tutti quei ragazzi la pensino allo stesso modo. In effetti, il primo esempio di “tradimento” alle proprie radici arriva proprio da “Apple”, prodotto dalla Polydor, segno evidente che qualcuno di molto potente iniziava ad accorgersi di ciò che stava accadendo a Seattle. Ad “Apple” segue “Temple Of The Dog”, album dedicato a Wood e inciso dall’omonima band composta per l’occasione da Ament e Gossard, contattati non senza remore da Chris Cornell, uno che con Andy aveva condiviso tutto, anche la casa. E’ un altro treno che la Sub Pop si lascia scappare, visto che la pubblicazione avviene ad opera della A&M, fresca di acquisizione da parte della Polygram e che già nel 1989 aveva prodotto “Louder Than Love” dei Soundgarden.

Dopo lo scioglimento dei Mother, animato da nuovi stimoli, Stone inizia a suonare con diversi musicisti attivi a Seattle. Uno di questi è il chitarrista Mike McCready, il quale da subito impone due condizioni: la prima, riallacciare i rapporti con Jeff, un po’ raffreddati dopo la morte di Andy; seconda, ingaggiare alla batteria Dave Krusen. Il gruppo sarebbe al completo, se non fosse che nessuno di loro ha intenzione di cantare. 

Manca una voce quindi, nonostante la band abbia già inciso alcune demo. In qualche modo riescono a contattare Jack Irons, anima dei Red Hot Chili Peppers della prima ora, il quale manda il materiale a un suo vecchio amico originario di Chicago. Quel ragazzo si chiama Edward Louis Severson, ma negli ultimi anni ha preso legalmente il cognome della madre, Vedder, a margine di una vicenda familiare non proprio felice.

Eddie vive a San Diego, non è un artista, più che altro si diletta a cantare e a scrivere testi. Divora quei nastri mandati da Jack e in breve tempo compone e incide parti vocali che sorprendono gli altri. Dentro ci sono cupezza e solitudine, ogni strofa è un viaggio nel proprio subconscio alla ricerca delle origini di un’oscurità così densa e irreversibile. Il posto è suo, fanno sapere i ragazzi da Seattle, c’è bisogno che Eddie si trasferisca ma soprattutto che la band scelga un nome. Dopo un breve periodo di attività come Mookie Blaylock, in onore dell’ottimo play all’epoca in forza ai Nets di New Jersey, ecco che come un condor irrompe la Epic Records: anche la Sony aveva fiutato l’affare. Per non farsi sfuggire una potenziale gallina dalle uova d’oro, la Universal – che all’epoca si chiamava MCA – attraverso la sua etichetta satellite Geffen in quei mesi mette sotto contratto i Nirvana, già valorizzati dalla Sub Pop e da Jack Endino con “Bleach”

Nei confronti di Vedder e soci la Epic non impone restrizioni. L’unica cosa da cambiare, per motivi di copyright, è il nome della band: così lo stesso Eddie tira fuori dalla valigia dei ricordi il nome di sua nonna e la sua squisita marmellata fatta in casa. “Va bene Pearl Jam?” chiedono i ragazzi. Risposta affermativa. Dopo le registrazioni ai London Bridge Studios di Seattle prende così vita “Ten”, un titolo che, richiamandone il numero di maglia, rappresenta l’ultimo omaggio Blaylock.

credit: Lance Mercer

La spina dorsale è rappresentata dall’aggiornamento dei pezzi che Jeff e Stone avevano composto e inviato a Eddie, con l’aggiunta dei suoi testi il meccanismo diviene perfetto. Allo stesso tempo, i discografici intravedono il loro potenziale e li lasciano esprimere senza intervenire mai su temi, linguaggio e stile musicale. Da un lato, quelli della Epic capiscono che “Ten” era il prodotto che mancava: una miscela che rappresenta la naturale conseguenza socio-musicale dell’hard rock e del post punk ottantino. Dall’altro, non è il caso di traviare un percorso già dai suoi primi metri.

Con gli undici pezzi di “Ten” i Pearl Jam incarnano l’anima classic-rock di Seattle, incastonandosi in un quadrilatero fatto di punk (Nirvana) e metal (Alice In Chains e Soundgarden). E’ un moderno revival nel quale risuonano echi di Led Zeppelin, The Who, Aerosmith e Doors, impreziosito da testi profondi ma allo stesso tempo semplici. 

Si parla anche d’amore in senso generico, come in Oceans e Porch, ma i diamanti Vedder li tira fuori parlando di sé. Sa di avere un lato oscuro che alberga nella sua anima, diverso dal complesso di Edipo che la leggenda attribuiva a Jim Morrison. Quell’oscurità è preconizzata in Alive – un futuro inno generazionale – pezzo che cristallizza il momento esatto in cui la mamma gli racconta di suo padre, quello naturale, morto per sclerosi quando lui aveva 13 anni: da lì in poi un’ombra si impossessa della sua razionalità, una macchia oscura che pian piano diventa incontenibile. In Once, quell’ombra passa all’azione e gli dice di odiare, fino al punto di uccidere, una dinamica alla base della forma mentis di un serial killer. L’autobiografia in questo caso si fonde con la cronaca, perché in Jeremy – testo ripreso da una vicenda realmente accaduta – quel killer, un liceale come tanti, prende coscienza che sua madre non vuole più in casa né lui né suo padre. Così una mattina va a scuola e nello zaino infila una pistola: a lezione iniziata si alza in piedi sul banco e si suicida sparandosi in bocca davanti a tutta la classe. 

Un’altra doppietta autobiografica è rappresentata da Black e Release, due pezzi sulla perdita umana. La prima parla di una lei che va via senza lasciare messaggi: le sue foto si scioglieranno sotto le lacrime di Eddie fino a formare una patina nera, che resterà appiccicata come un tatuaggio. La seconda riguarda quel padre mai conosciuto, ma anche l’amico Andy Wood.   

Eddie è un ottimo creatore di testi, ma anche un generoso attivista sociale. Gli stanno a cuore diversi temi, così ne approfitta per parlarne nei suoi pezzi, cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica. In Even Flow racconta di un senzatetto che muore di freddo sognando giorni migliori. Con Why Go affronta il tema di una ragazza rinchiusa in un ospedale psichiatrico da due anni: è stata la mamma a portarla lì e in quel periodo non è mai andata a trovarla. I medici la rassicurano, dicendole che presto potrà tornare a casa, ma lei si chiede perché tornarci, ma soprattutto da chi, se sa che l’unica persona che vi troverà è colei che l’ha costretta a quell’inferno. Il tema della guerra domina Garden, laddove il giardino raccontato nel pezzo è il cimitero nel quale sono sepolti tutti i militari deceduti nel conflitto, ragazzi come loro ai quali uno stupido ideale di conquista ha strappato la vita dal petto.

Il capolavoro di “Ten” è Deep, un pezzo che ha un triplice significato che ruota intorno alla profondità. Si parla di un tossicodipendente, di un anziano colmo di rimpianti e di un angelo rinnegato dal suo dio, che torna sulla terra incarnandosi in una vergine. In tutti e tre i casi la metafora della profondità è resa fisica: una siringa che inietta eroina, un coltello che taglia le vene e il genitale maschile che violenta, spezzando l’innocenza altrui.

Con la copertina – ideata da Jeff Ament – che li ritrae raggruppati, quasi a voler siglare un patto da moschettieri, il lavoro è completo. La distribuzione del disco su vasta scala, un mix di emozioni post-adolescenziali e la diffusione dei video su Mtv, che di lì a poco chiamerà i Pearl Jam – ma anche i Nirvana e, qualche anno più tardi, gli Alice In Chains – per registrare un leggendario unplugged, fanno sì che la rivoluzione si compia: un manipolo di ragazzi, per lo più amici tra loro, hanno “venduto” il loro essere di Seattle (per dirla alla Pavitt & Poneman) in cambio del dominio mondiale. 

Ragazzi come loro, in ogni angolo del pianeta, ascoltano le storie raccontate in “Ten” e automaticamente si immedesimano, lasciandosi andare a una spontanea empatia. Non si contano più i giovani che cambiano il loro stile, iniziando a vestirsi in perfetto Seattle style, anche in posti dove di boscaioli ce n’erano ben pochi. Si può tranquillamente parlare, ante litteram, di proto-influencer in un’epoca in cui ancora non esistevano i social.  

La distanza tra “Ten” e il resto della produzione made in Seattle di quegli anni fornisce anche un’esauriente risposta alla definizione di grunge. Forse non è un genere, sicuramente è influenzato dalla musica del passato – perché nel rock nulla si crea, ma tutto si trasforma – ma una cosa è certa: quei ragazzi erano amici, vivevano a Seattle e amavano la musica, poi ognuno suonava a modo suo. Quando quell’estate del 1991 lasciò dolcemente il posto all’autunno, la pioggia sui boschi color smeraldo conferì a tutti loro la consapevolezza di essere diventati un fenomeno universale. Dopo “Ten”, ci bastò aspettare qualche settimana e nei negozi comparvero prima “Nevermind” dei Nirvana, poi “Badmotorfinger” dei Soundgarden. 

Il 17 gennaio del 1991, scaduto l’ultimatum che l’Onu aveva intimato a Saddam Hussein dopo l’invasione del Kuwait, la coalizione internazionale capitanata dall’esercito statunitense annunciava i primi attacchi all’Iraq, sancendo l’inizio della prima Guerra del Golfo. George Bush con le armi pensava di appropriarsi del Medioriente, qualche mese dopo Seattle con la sua musica conquistò il mondo.

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