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Interviste

Un giretto all’inferno: Intervista a RosGos

È da poco uscito con “Circles”, il suo terzo lavoro solista (qui la nostra recensione), un disco che a noi di ImpattoSonoro è piaciuto molto. Ne abbiamo quindi approfittato per fare quattro chiacchiere con Maurizio Vaiani, alias RosGos, che ringraziamo per la disponibilità.

Il tuo moniker è preso da un’espressione dialettale della bassa padana, tuttavia la tua musica guarda oltreoceano, a movimenti musicali cresciuti in zone per certi versi simili alle tue. Ci spieghi come nasce RosGos e se esiste un legame tra radici e produzione musicale?

Il moniker RosGos nasce come un ricordo, a mio padre. RosGos nel mio dialetto significa pettirosso. Un giorno, una delle ultime volte che vidi mio padre prima che la malattia se lo portasse via, eravamo seduti nel parco di questa struttura che l’ospitava. Vicino a noi arrivò un pettirosso e mio padre alzando lo sguardo mi guardò e disse: guarda, un ros gos. Da quel giorno ogni volta che vedo un pettirosso il mio pensiero corre inevitabilmente a quel giorno e al bellissimo ricordo che ho di mio padre. Non credo sia un’equazione perfetta il legame tra radici e produzione musicale. Per molti è sicuramente così, per me direi di no. Nel mio caso molto è dipeso dalla continua ricerca che ho fatto nella mia vita. Sono molto curioso in ambito musicale e quindi ho ascoltato e ancora ascolto tantissima nuova musica anche quella che in superficie non mi piace. Non sono uno di quelli che si siede sul divano e ascolta ancora i suoi idoli di quando era ragazzino. No, per carità. anche i dischi che ho amato di più li lascio lì, nei bei ricordi. Preferisco addentrarmi in vie del tutto inesplorate che spesso sanno regalarmi molte sorprese. Quindi per rispondere alla tua domanda direi di no. La mia produzione musicale dipende soprattutto da ricerca e curiosità.

Sei passato dal canzoniere appassionato di “Canzoni nella notte” alle divagazioni in salsa americana di “Lost in the desert”. Arriva quindi il momento di “Circles”, un concept sulla redenzione dalle fiamme dell’inferno. Guardandoti indietro dal punto in cui sei oggi pensi di essere (scusa la citazione) nel mezzo di un cammino o di concepire ogni singolo disco in base all’urgenza comunicativa del momento?

Indubbiamente la seconda ipotesi. L’urgenza è ciò che mi spinge a fare certe scelte, a seguire determinate strade. Canzoni nella notte direi che è un album a se stante. Nasce per fermare un momento, un periodo di grandi lutti, prima mio padre e poi mio fratello. Avevo bisogno di buttare fuori dolori immensi e la forma tipica della canzone mi sembrava il modo più adatto o comunque più semplice per dire certe cose. DaLost in the desert  ho invece cominciato una sorta di trilogia del viaggio. Dapprima verso un non luogo, perso tra le pieghe della società e del mondo circostante, per poi arrivare con Circlesad un viaggio prettamente interiore. Il prossimo album sarà la chiusura della trilogia e scopriremo insieme dove il viaggio ci porterà.

In “Circles” il primo concetto di inferno che salta alle orecchie è quello legato alla sofferenza interiore, generata da una perdita. E’ un passaggio autobiografico?

Circles non è un album autobiografico. Certo è che inevitabilmente le nostre preoccupazioni, sofferenze, dolori, ma anche gioie e amori, finisconoper influenzare ciò che diventa poi musica e testi. Molto difficilmente riuscirei a scrivere brani allegri quando dentro di me c’è il finimondo. E considerando che quando sono sereno e felice non mi metto mai a comporre ecco che di conseguenza, ahimè, finisce che compongo solo nei momenti dove le tonalità più scure e cupe prevalgono.

Da Mark Lanegan ai Wovenhand, passando dai The Cure: ci parli delle tue ispirazioni nel biennio che porta a “Circles”?

Come accennavo in precedenza la mia curiosità mi spinge continuamente ad ascoltare musica nuova, artisti anche poco noti. Mi piace catturare i colori della loro musica. E quindi fatico a rispondere alla tua domanda con precisione chirurgica. Diciamo che un disco dei Cure credo di non ascoltarlo da almeno 15 anni, mentre sicuramente nel mio lettore passano ancora alla grande Wovenhand e 16 Horsepower che restano delle grandissime certezze. L’ascolto continuo delle novità è ciò che mi regala maggiore gioia e soddisfazione perchè non avendo alcuna aspettativa quando scatta la scintilla sono regali immensi e magnifici.

I pezzi sono interamente scritti ed eseguiti in solitaria, un solo produttore alla parte tecnica, insomma: una produzione minimale. Scelta o necessità?

Direi che è una scelta. Ho fatto parte di gruppi musicali per moltissimi anni e, come per tutte le cose, sono esperienze ricche di aspetti positivi ma anche negativi. Il maggior limite di un gruppo, soprattutto nel nostro dove eravamo in cinque, è che sostanzialmente nessuno può fare quello che vuole. Eravamo tutti limitati, tutti preoccupati a mediare. Una mediazione continua per non deludere gli altri più che per soddisfare le proprie esigenze. Comporre da solo ha ovviamente il grande limite di non sfruttare le idee di più musicisti ma nel contempo mi sento libero di fare e disfare a mio piacimento ogni canzone, ogni arrangiamento, ogni testo, ogni nota. E alla mia età è bellissimo. Poi devo dire che bisogna avere anche la fortuna di collaborare con il produttore giusto, nel mio caso Marco Torriani, per tutti Toria.Lui sa quello che voglio e come mi piacerebbe arrivarci e pure io so come lavorerà. La conoscenza e il rispetto reciproco, ventennale, ci porta a lavorare bene, senza grandi intoppi, e senza rischi di sorprese negative.

Da compositore solitario adesso scatenati dicendo che tipo di strumentazione hai usato.

Ah guarda, non c’è molto da scatenarsi ahahah. Il metodo di lavoro instaurato tra me e il Toria è molto semplice. Io mi preoccupo di scrivere lo scheletro della canzone, quindi fissare una melodia della musica e della voce, e corredare il tutto con un testo. E per farlo non ho bisogno di grandi strumentazioni. Mi basta la mia chitarra acustica. Ciò che mi serve è che arrivi l’idea giusta e quella spesso si nasconde per mesi per poi ricomparire e regalarmi una manciata di nuove canzoni di pochi giorni. In sostanza scrivo una bozza della canzone, la registro sul cellulare, passo il risultato a Toria che la svilupperà in base ai nostri precedenti accordi su come indirizzare la produzione. Quindi direi che la domanda su quale strumentazione è presente nel disco direi che bisogna inoltrarla a Toria. Il sospetto è che ci sia dentro un elenco di strumenti piuttosto lungo :-)

Dal punto di vista dell’esperienza musicale, riallacciandomi alle due domande precedente: a margine di un percorso che ti ha portato dall’essere frontman a one-man-band, torneresti a unirti a un gruppo? Se sì, con quali artisti dell’attuale panorama (italiano e internazionale) ti piacerebbe collaborare?

Indubbiamente anche solo il fatto di ritrovarsi in una saletta per sprigionare nuova musica e nuove idee mi porta a risponderti che sì, suonare di nuovo in un gruppo sarebbe bello e soddisfacente. Lo rifarei solo con i miei vecchi compagni di viaggio con i quali ho sempre avuto un rapporto amichevole e piacevole. Chissà, magari un giorno ci ritroveremo e daremo un seguito anche alle musiche targate Jenny’s Joke. Se invece allarghiamo l’orizzonte beh, in ambito internazionale collaborerei immediatamente con il mio mito indiscusso Wovenhand. In ambito nazionale invece darei volentieri la mia collaborazione con gli altri artisti dell’etichetta Beautiful Losers, etichetta che ha pubblicato il recente Circles.

L’elettronica presente in lungo e in largo, segno di discontinuità rispetto al passato, è un po’ il marchio di fabbrica di Beautiful Losers, la tua nuova etichetta. Come vi siete trovati e che esperienza hai tratto lavorando con loro?

Come accennavo in precedenza è l’urgenza che cambia ad ogni disco ad imprimere un marchio sonoro al prodotto finale. Nel caso di Circles l’inserimento dell’elettronica è stata una scelta che ho discusso con il produttore, Toria, e consci dei rischi che ci stavamo per assumere, in quanto materia mai veramente trattata da noi come artisti, ci siamo inoltrati in quei territori e il risultato finale ci è piaciuto molto. E credo sia piaciuto molto anche ai specialisti del settore in quanto abbiamo ricevuto davvero moltissime recensioni positive, addirittura ottime, e non una negativa. Lavorare con Andrea Liuzza, boss di Beautiful Losers, è stato un grande piacere. Nonostante sia una realtà piccola ha una tale voglia di fare le cose per bene e alla grande che sembra che alle spalle tu abbia un team di dieci persone. E quindi ti senti coccolato e protetto dalle insidie del mercato e soprattutto sa consigliarti e suggerirti le cose da fare per realizzare al meglio il progetto finale. Una realtà che consiglio quindi di scoprire perché tra l’altro promuove artisti molto validi.

Dopo la pubblicazione di un disco di solito si parte per il tour. Se vuoi cogli l’occasione per dire ai nostri lettori dove potranno trovarti in giro.

Diciamo che non mi vedranno in alcun tour. RosGos è un progetto che nasce e muore in studio di registrazione. Ho fatto molti live con i gruppi precedenti, credo intorno a 300, nelle situazioni più disparate e adesso basta, stop, non ho più energie da dedicare anche a quell’aspetto. Suonare dal vivo è molto bello ma anche molto faticoso. Ti porta via un sacco di tempo per le prove, per allestire un concerto dignitoso, oltre al fatto che magari ti devi mettere in macchina dopo una giornata di lavoro per suonare a 150 km di distanza davanti a venti persone. No, anche basta. La situazione dei live ormai è imbarazzante. Sono rimaste le situazioni grandi e importanti ma bel contempo è sparito quasi del tutto il sottosuolo, il famoso e ormai passato underground. Sono spariti i luoghi perché semplicemente è scomparso il pubblico. Il pubblico giovane non ha alcun interesse a frequentare i piccoli club, gli arci, i luoghi di aggregazione in sostanza. Vai in questi posti sopravvissuti e chi vedi? Le solite persone di 15-20 anni fa, semplicemente invecchiate. E’ una situazione triste ovviamente ma è frutto di un netto cambio generazionale che evidentemente ha altri interessi e altri modi per soddisfarli.

In conclusione, una domanda rivolta a un veterano della scena indipendente italiana: qual è lo stato di salute della creatura alternativa nel nostro paese?

Ma guarda, ti dirò che negli ultimi due anni vedo un fermento creativo non indifferente. Vedo nascere creature sonore davvero sorprendenti. Molti progetti non hanno nulla da invidiare a progetti internazionali. Poi, ovviamente, spesso la differenza si crea con la promozione, con la costruzione dell’hype e con tutte quelle belle cose a me distanti che trasformano un progetto in un probabile successo. La mia speranza è che possa svilupparsi una nuova ondata musicale che porti alla nascita di un nuovo e più ricco sottobosco fatto di locali, club e soprattutto di giovani, spettatori e nuovi protagonisti della musica e di tutto ciò che crea aggregazione e quindi ricchezza culturale, di cui tutti ne abbiamo un grandi bisogno.

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