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Tutti in soffitta con Jarvis Cocker: “Good Pop, Bad Pop” il primo memoir del cantante dei Pulp

Una volta terminata la lettura di “Good Pop, Bad Pop”, primo e spero non ultimo libro di Jarvis Cocker mi è venuto un dubbio e ho dato un’occhiata alla sezione “musica” delle mie varie librerie (sìsì, sto usando il plurale di proposito) per capire di quanti musicisti come Jarvis ho letto, e la risposta è: pochi. Mi spiego meglio: la maggior parte dei memoir o delle biografie che ho accumulato nel tempo parlano di personaggi che hanno subìto svariate docce di merda e spazzatura, cosa che ha dato benzina e innesco alla propria arte, spesso sofferta. In questo caso, invece, ho avuto a che fare con una persona del tutto diversa. Normale, diremmo. E perché non farlo? Questo è sempre stato il fascino di Jarvis, i cui Pulp sono stati una di quelle band non direttamente coinvolte nelle varie faide del britpop (o Br*tpop come lo riporta lui stesso in questo pagine), ma proprio per questo divenuti un culto a se stante, un culto pop.

Il memoir di Mr. Cocker è un oggetto particolare, un oggetto pop, che poi è la fissa sempiterna dell’autore, che ha trasecolato con l’avvento del punk come tanti suoi coetanei, ma che ha sempre servito gli dèi di quel “buon pop” che campeggia in copertina e dai quali ha preso spunto prima per la sua musica (la hit Disco 2000 non è nata a caso) e poi per la sua autobiografia, i cui punti di forza sono parecchi. Partiamo dal principio, dal contenuto. Jarvis si avventura in soffitta e, dietro una porta gialla, trova un tesoro. Come Warren Ellis per il suo “Nina Simone’s Gum”, la narrazione prende le mosse dagli oggetti. Gli oggetti, nella nostra società, narrano più storie di qualsiasi altra era l’umanità abbia attraversato. Siamo schiavi degli oggetti, i nostri ricordi ne sono influenzati e indelebilmente legati al doppio filo. Dunque Jarvis coinvolge il lettore in un esperimento: il KEEP or COB experiment. Tenere o gettare?

Photo: Tom Jamieson

Detta così parrebbe un libro game, perché spezza la quarta parete letteraria e ci/si chiede se tenere l’enorme quantità di roba che quivi ha accumulato negli anni, roba di cui si era scordato, cose di cui dimenticarsi è impossibile e che, eppure, è finita nel buio di una soffitta. L’espediente è presto chiarito come il punto di partenza della storia della sua band, che si è sempre chiamata Pulp, sin dai tempi della scuola, riportata su quaderni ormai ingialliti, ma con un’idea sempre chiara e sempre fissa. Il viaggio che porta a camminare per le strade della periferia inglese (letteralmente la periferia dell’Impero), in mezzo a personaggi strampalati, di cui lui stesso non è primus inter pares, ma sempre ultimo e sullo sfondo. Chiacchiera e coinvolge, di musica parla in obliquo e dei Pulp tanto quanto poco. Non c’è gossip, non ci sono riferimenti chiari ad alcuno dei dischi della propria fama, ma briciole, tessere di un puzzle che, chincaglieria dopo chincaglieria va a formare un quadro completo e colorato.

Colorato perché il libro non è solo “nero su bianco”, ma un lavoro sopraffino di graphic design, con pagine che cambiano a seconda del tema o del corrente ritrovamento soffittaro, foto su foto su foto, tagli e warholismi a tutto spiano (scoperto grazie ai Velvet Underground, e come sennò?) e fitto di simbolismi del ‘900 che tramutano un semplice memoir (anzi, un “inventario”) in un oggetto “pop” delizioso da guardare, secondo solo al “Beastie Boys Book”, ché è roba imbattibile, e proprio per questo nessuno dei due temo verrà mai tradotto nella nostra lingua.

Poco male, il bello è leggerlo proprio nella lingua madre di Jarvis Cocker, effervescente british spettinato e occhialuto che, col suo amore per il pop, è riuscito a farsi sia produrre da Steve Albini che fargli storcere la bocca.

Autore: Jarvis Cocker
Uscita: 26/05/2022
Editore: Jonathan Cape London
Pagine: 368
Prezzo: € 27,48
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