“Strangeways, Here We Come” è lo swan song della band di Manchester. Quarto album degli Smiths, fu dato alle stampe e pubblicato dopo l’annuncio della separazione tra Morrissey e Johnny Marr. Ad oggi, l’ultimo capitolo ha ancora molto da offrire e molto bagaglio da portare. Perché ha seguito “The Queen is Dead” (citato da molti fan come il più grande lavoro della band, contiene la loro migliore melodia politica – la title track – la loro migliore canzone d’amore – There Is a Light That Never Goes Out – e il loro culmine espressivo – I Know It’s Over -). Perché è l’ultimo disco della band. Da quel settembre del 1987 sono passati trentacinque anni, ma “Strangeways, Here We Come” suona ancora con una spontaneità sorprendente, tra testi belli e laceranti di Morrissey (parole perennemente in bilico tra malinconia e umorismo macabro, cupe e a tratti particolarmente difficili) e una scintillante chitarra di Johnny Marr. La copertina è stata curata, come sempre da Morrissey: un fotogramma di Richard Davalos mentre osserva James Dean de “La valle dell’Eden”.
Dieci canzoni compongono questo disco “strano”; ad ogni giro una nuova sfumatura, apprezzabile ad ogni ascolto un po’ di più. La perfetta colonna sonora di un’atmosfera granitica, di stallo: una cortina di piombo calata tra due stagioni, due relazioni, due personalità. Si inizia con la mistica e ultraterrena A Rush and a Push and the Land Is Ours: apertura inquieta e ossessionante, accompagnata dalla squillante melodia di Marr. La traccia scuote ogni difesa: il pianoforte è inquietante e la voce di Morrisey pare un debole lamento spettrale. Si presenta come un sogno confuso, un’esperienza extracorporea, una strana visione che è già sfocata ai bordi, tra riferimenti oscuri e allusioni a viaggi nel tempo. Si continua con improvvise esplosioni di rumore, melodie fragorose e frenesia di synth in I Started Something I Couldn’t Finish e in Death of a Disco Dancer (va segnalato il travolgente finale strumentale di quasi tre minuti: malinconico quanto basta, capace di farti innamorare al primo ascolto!). Alla quarta traccia l’album pare trasformarsi nell’allegra e ariosa Girlfriend in a Coma, uno dei singoli più famosi degli Smiths, sintesi perfetta tra testi spietati e melodia ventilata, amore e odio: “there were times when I could have murdered her but you know, I would hate anything to happen to her”.
Le sonorità tornano cupe e intime nelle successive Stop Me If You Think You’ve Heard This One Before e Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me. Quest’ultima profuma di solitudine e rottura, è la dichiarazione della fine della band. Un intro cupo e doloroso di pianoforte, il frastuono distante di una folla chiassosa e la voce disperata di Morrissey che irrompe gridando tutta la sua delusione: “last night I dreamt that somebody loved me, no hope no harm just another false alarm”. Musica e versi assumono una valenza universale, nello spazio e nel tempo, in quella che è una celebrazione melanconica di un cuore spezzato e di un’anima disillusa. Mentre le ultime note si trascinano amare, Unhappy Birthday esplode improvvisa e prorompente. Battute amare e strimpellata semi-acustica, la traccia è l’augurio di non-felicità in occasione di un compleanno che chiunque di noi avrebbe potuto scrivere; la storia del sedotto e abbandonato, un testo in cui è talmente facile riconoscere un qualsiasi frangente della nostra vita: “and if you should die I may feel slightly sad but I won’t cry!”
Premessa: le canzoni sull’inettitudine dell’industria musicale sono senza dubbio noiose, ma la fede di Morrissey nel potere del pop ti fa ascoltare Paint a Vulgar Picture con un certo interesse. Traccia pulsante che racconta la storia di una una (dead)star diventata famosa dopo la morte. Subito prima del gran finale, gli Smiths tornano ad affrontare nuovamente il tema della morte con Death at One’s Elbow (il titolo della canzone è una citazione ai diari di Joe Orton), rievocando un vecchio caso di cronaca nera. Il disco si conclude con I Won’t Share You: “well, that’s ok, just as long as you know life tends to come and go, I won’t share you with the drive and the dreams inside”. Su queste parole si chiude “Strangeways, Here We Come”, sentenziando la fine dell’album e della discografia firmata Morrissey/Marr. A mio giudizio è il brano migliore dell’album. È il più semplice e il più inquietante, specialmente nella parte in cui entra in gioco il riverbero. Difficile immaginare una fine più adatta per l’ultimo album in assoluto degli Smiths.
“Strangeways, Here We Come” trasmette un senso di affascinante incompletezza: è come smontare un qualche oggetto e dai suoi pezzi crearne uno nuovo, del tutto diverso. È come l’ultima puntata di una serie televisiva, che ti fa chiedere sempre se ci sarà una prossima stagione o se sia davvero la fine di tutto. E il dubbio rimane, anche a più di trent’anni di distanza.