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Slipknot – The End, So Far

2022 - Roadrunner
alternative metal / alternative rock

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Tracklist

1. Adderall
2. The Dying Song (Time To Sing)
3. The Chapeltown Rag
4. Yen
5. Hivemind
6. Warranty
7. Medicine For The Dead
8. Acidic
9. Heirloom
10. H377
11. De Sade
12. Finale


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A dare credito alle parole di Jim RootThe End, So Far” è stato costruito in studio e questo ha compromesso qualcosa nell’economia del disco. Niente pre-produzione, niente prove, solo assemblaggio di parti su parti, insomma, potremmo chiamarla la “sindrome di ‘St.Anger’”, almeno a leggerla così. Secondo il chitarrista degli Slipknot non erano nemmeno pronti per Joe Barresi e i suoi metodi.

Poi parte Adderall. C’è questa “leggenda” di un album mai pubblicato da parte dei nove dell’Iowa, un disco registrato ai tempi di “All Hope Is Gone” in formazione ridotta. La “leggenda” (sempre tra virgolette perché il disco è chiaro esista, ha anche un titolo) che parla di una raccolta di brani che nulla avrebbero a che vedere con quanto fatto fino a quel momento da una delle band più feroci sul mercato, seppur in evidente – momentaneo – declino, pregno di melodie che riportano alla mente i Radiohead. Adderall nel mentre è finita e quel che rimane attaccato alla pelle è la sensazione che quelle melodie siano qui riemerse e si siano insinuate dove in passato c’erano solo rumore e disgregazione sonora spalmata in introduzioni “da copione”, soppiantate da un brano che sa di etere sniffato in assoluta pace e, tra le pieghe di un inferno rarefatto, si intravedono i fantasmi di Seattle. È leggera come una piuma nera che brucia mentre cade. È qualcosa che finora avrebbe stonato e invece qui fiorisce. Non è la Vermillion piazzata in mezzo al disastro, lo introduce. È il benvenuti in un’altra realtà. Il copione buttato nel cesso.

Salto di capitolo: Medicine For The Dead. Le vestigia del metal che fu, nemmeno il loro ma quello thrash del secolo scorso, stingono in un groviglio di spettri mediorientali, spiriti elementali in sintesi chimica, discese abissali e risalite verso la mente di Philip K. Dick attraverso lenti cinematiche che scoppiano all’impatto con la voce di Corey Taylor, kafkiana nell’ovvio senso mutante, trasfigura, non è mai se stesso e poi lo è di nuovo. Quanto scritto finora pare un’illusione, ma solo finché Acidic non fa il suo ingresso in scena portandosi appresso ancora una volta il grunge, un’intensità che vibra nelle chitarre e risuona a specchio tra le corde vocali per esplodere in volo piovendo come ceneri su un cimitero cibernetico. Altro salto di capitolo: Finale è il funerale della band. La odierete, tanto è bella, grondate oscurità gotica, sangue nero che si schianta sul pavimento creando disegni che finora non avreste voluto nemmeno immaginare, eppure eccoli. Dovrete tornarci su.

Digressione: mai come ora l’apporto di Sid Wilson e Craig Jones è stato tanto importante. Li troverete sempre presenti, più di tutti gli altri membri degli Slipknot, a giganteggiare, prendersi tutto lo spazio necessario, cambiare il corso della composizione e farlo senza compromessi, senza comprimersi tra un riff e l’altro, tra una mazza infranta su un fusto di birra e una mitraglia a doppio pedale. Si impongono e costruiscono tensione, lo fanno nelle bordate di The Dying Song (Time To Sing), The Chapeltown Rag, si fanno lovecraftiani in Hivemind. Il proscenio è loro. Quando poi il delirio si impossessa della band e H377 (forse uno dei brani più psicotici dai tempi di “Iowa”) loro lo sbilanciano per poi riallinearlo ad un mostro ancor più grande.

Yen e De Sade si confrontano testa a testa, piazzate davanti ad uno specchio deformante, dove una è squilibrata, l’altra è un muro di marmo che brilla illuminato dal malessere che si dibatte anche nell’acido screziato d’argento di Heirloom. Tornate al secondo salto di capitolo. Era chiaro il doverlo fare per chiudere.

Mi ripeto anch’io. Come aprivo la recensione di “We Are Not Your Kind” concluderò questa: cosa vi aspettate da un album degli Slipknot? Oggi rispondo: non questo. Da qui in poi ci sono due strade: la fine o un nuovo inizio. Il titolo di sicuro non lascia molto all’immaginazione.

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