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“Young Loud And Snotty” dei Dead Boys: il trionfo degli impulsi più selvaggi

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Fu quel sant’uomo di Joey Ramone a spingere affinchè i Dead Boys potessero cominciare ad esibirsi sulle assi del CGBG’s, e sin dalle prime apparizioni quello di Stiv Bators e della sua accolita di pervertiti divenne uno degli shows più gettonati della Bowery. In breve tempo i Dead Boys si fecero la fama dei più selvatici tra i selvatici, col loro depravato e ustionante punk rock a base di violenza, misoginia, follia e travasi di bile.

Arrivati a New York City per sfuggire dalla noia senza speranza di Cleveland, il chitarrista Gene “Cheetah Chrome” O’Connor, il batterista Johnny “Blitz” Madansky e Stiv Bators provenivano dai Rocket from the Tombs, la band che era stata anche di David Thomas prima di formare i Pere Ubu. Reclutati il secondo chitarrista Jimmy Zero e il bassista Jeff Magnum, cominciarono come Frankenstein per poi svoltare definitivamente come Dead Boys. Da subito i cinque sembrarono gli insani custodi di un’arsenale di oltraggi, caos e depravazione al cui confronto tutti gli altri punks del periodo rischiavano di sembrare gli Abba.

Il loro primo album, “Young, Loud and Snotty“, sputava nichilismo e volgarità, bruciava di vizio e perdizione e imbottigliava l’ansia e la paranoia di una generazione che sfidava l’inferno. I Dead Boys erano l’ala triviale del punk rock newyorkese, erano il trionfo degli impulsi selvaggi, col principe licenzioso Stiv Bators che vomitava lussuria e razzolava nel putridume, e i chitarristi Cheetah Chrome e Jimmy Zero che suonavano come se fossero ammanettati a una centrale elettrica. “Young, Loud and Snotty” faceva rima con sesso e violenza, un incrocio senza filtri tra le New York Dolls, Iggy Pop e i Damned, e dentro c’erano alcune delle più marcie canzoni punk rock del periodo: Ain’t Nothing to Do, What Love Is, I Need Lunch e soprattutto quella Sonic Reducer che era il vangelo secondo Stiv Bators del nichilismo. Sonic Reducer era l’inno punk per eccellenza, e quei tre minuti stordirono parecchi, dai Beastie Boy ai Mudhoney, dai Pearl Jam ai CCCP fino ai pisani Cheetah Chrome Motherfuckers, gli antesignani dell’hardcore italiano.

Photo: GAB Archive

Registrato agli Electric Ladyland Studios di New York , “Young, Loud and Snotty” era una spedizione nel ventre del regno del desiderio e della lussuria, una grandinata sonica di istinti e pulsioni che ne fecero il disco di riferimento per molti dei gruppi che dopo poco, tra l’ovest e il sud della California, edificarono l’hardcore-punk. Qualche tempo dopo l’uscita dell’album il batterista Johnny Blitz rimase accoltellato in una rissa, si fece qualche mese in ospedale e per pagargli le spese mediche amici e musicisti del giro organizzarono quattro serate di bagordi e rock’n’roll al CBGB’s: il suo posto dietro i tamburi dei Dead Boys fu preso da John Belushi, da sempre fan sfegatato della band. Dopo “Young, Loud and Snotty” la casa discografica del gruppo, la Sire, chiese ai cinque di abbassare i toni e riattaccare la spina della decenza, che era come chiedere a Leonard Cohen di cantare in falsetto.

L’album successivo, “We Have Come for Your Children“, non aveva già più l’incandescente istintività del precedente e di lì a poco ci fu lo sciogliete le righe e ognuno per la propria strada. Stiv Bators continuò a nobilitare l’arte della provocazione con i The Lords of the New Church, e basta dare un’occhiata alla stomachevole foto del singolo contenente la cover di Like A Virgin di Madonna per averne un’idea. I suoi shows dal vivo continuarono ad essere sceneggiate furiose e masochiste, come quando rischiò seriamente di restarci secco per essersi quasi impiccato con la corda del microfono.

Si riprese, ma il 4 giugno del 1990 venne investito da un taxi a Parigi. Le sue ceneri vennero sparse sulla tomba di Jim Morrison al Père-Lachaise.

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