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“Panopticon”, un viaggio celestiale nei saliscendi emotivi degli Isis

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Panopticon” degli Isis rappresenta senza ombra di dubbio l’apice creativo di una band in costante crescita, che nel 2004, anno di pubblicazione, superava addirittura l’evoluzione musicale già notevole di un disco come “Oceanic“, ma ancora ancorato agli stilemi del post-hc. Il disco del quintetto di Boston ha perfezionato la formula del precedente riuscendo addirittura a travalicare i generi come pochi altri e contribuendo a plasmare un certo tipo di suono dettandone delle vere e proprie linee guida. Per semplificazione, anche se il termine era già stato utilizzato negli anni ’90 per lavori di band seminali come Godflesh, Neurosis, Tool o anche Melvins, il post-metal viene spesso associato proprio agli Isis: il loro sound raggiunge un livello di emozionalità che ha pochi eguali nella storia della musica pesante.

Quello che ha reso indimenticabile questo lavoro degli Isis fu, oltre alla qualità elevatissima dei brani presenti, il perfetto e magico mix tra parti dure e violente con momenti e costruzioni più complesse ed articolate ma al tempo stesso anche più ragionate e pacate, tipiche del post-rock. Aggressività e quiete si alternano in maniera impeccabile dall’inizio alla fine senza sosta, come a voler sottolineare il concept del disco, che non è solo sull’attenzione sulla proliferazione delle tecnologie di sorveglianza nella società moderna e sul ruolo del governo in tale diffusione, ma anche la metafora distopica che punta il suo sguardo impietoso e disperato verso l’intera società, con i suoi alti e bassi. Una specie di gioco di chiaro scuri o una sorta di lotta tra il bene ed il male, verrebbe da dire.

Sarebbe già moltissimo, tuttavia un altro ancora è il vero segreto di “Panopticon ed è appunto la capacità di emozionare in maniera incredibile. Già con So Did We, una delle migliori opening track che abbia mai sentito, con quel suo impressionante muro di suono che viene sbattuto in faccia nei primissimi secondi senza intro o preamboli di sorta, si intuisce subito che qui si giocherà un campionato a parte. Questo brano lo considero come una sorta di manifesto programmatico degli Isis, perfetto crocevia tra la rabbia post-hc primordiale e i crescendo del post-rock più sognante e disteso, lasciando l’ascoltatore a bocca aperta e trasformando il loro suono in quello che qualcuno ha definito sludge atmosferico.

Livelli emozionali altissimi che non accennano a diminuire anche nella successiva Backlit o nel meraviglioso crescendo di In Fiction dove si sentono echi non troppo celati dei Tool, cosa che si sentirà ancora di più nei futuri lavori dei cinque. Già queste tre tracce iniziali varrebbero l’ascolto di questo disco, ma non finisce qui e l’intensità non tende a calare neanche con le successive Wills Dissolve e Syndic Calls, un altro brano da applausi, dove a metà, quando sembra concluso, stupisce e riparte in maniera diversa ed in progressione toccando un altro dei vari vertici emozionali del lavoro. Verso il finale, prima delle mazzate di Grinning Mouths, si ha modo ancora di viaggiare con la strumentale Altered Course che deve aver influenzato non poco un’altra band che sarebbe nata da lì a poco, ovvero i Russian Circles, e dove tra l’altro si ha il prestigioso special guest di Justin Chancellor dei Tool. Usavo il termine viaggiare perchè “Panopticon” è un viaggio turbolento e a tratti difficile, ma che lascerà appagatissimo l’ascoltatore una volta, ahinoi, finito.

Cosa si può aggiungere ancora se non evidenziare il lavoro superlativo dei synth di Bryant Clifford Meyer, che definirei “astrali”, quasi alla Pink Floyd, e che sono utilizzati in maniera chirurgica ma al tempo stesso con estrema sensibilità musicale ed aggiungono all’occorrenza maggiore pathos ed enfasi. Così come la voce, mai sopra le righe od invasiva, di Aaron Turner, utilizzata come un vero e proprio strumento, non prevalendo sulle parti strumentali e quindi mai in primo piano ma al servizio del mood del brano. E qui un plauso va fatto al sapiente Matt Bayles, in quegli anni attivissimo e famoso per essere già stato in cabina di regia con i Deftones per “Around The Fur” e per la breve ma fondamentale e fulminante discografia dei Botch. E ancora, le fantastiche chitarre a volte graffiano ed in altri casi accarezzano, mentre anche il lavoro della sezione ritmica è sempre notevole: il basso fantasioso, sinuoso ed a tratti “liquido” dell’ottimo Jeff Caxide ed infine il ritmo portante della batteria dell’estroso Aaron Harris, quasi tribale nel suo modo di suonare. Sono tutti tasselli di un puzzle in cui le tessere sono inserite in maniera perfetta e senza sbavature, specchio di uno di quei momenti di sinergia perfetta che capitano ad alcune band e che forniscono risultati celestiali.

L’unica pecca di questo disco fu appunto che dopo un capolavoro del genere è difficilissimo o quasi impossibile superarsi; Aaron Turner, non troppo tempo dopo lo scioglimento degli Isis, in un momento di grande onestà intellettuale oltre che di auto critica disse che dopo Panopticon” avrebbero dovuto avere la forza ed il coraggio di sciogliersi, ed ascoltando il successivo e poco riuscito “In the Absence of Truth” o l’ultimo “Wavering Radiant“, ma anche i primissimi Ep o certi momenti dell’interessantissimo ma ancora acerbo “Celestial” effettivamente i paragoni risultano addirittura improponibili e svilenti.

D’aldtronde, “Panopticon” è un lavoro immenso e uno dei dischi più belli degli anni 2000, che ha fatto entrare di diritto gli Isis tra i mostri sacri di un genere, sicuramente belli saldi sopra un immaginario podio insieme a Neurosis e Cult of Luna.

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