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“No Heroes” dei Converge, spostare le montagne un giorno alla volta

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Sono ancora madido di sudore e se ci penso ho i battiti che accelerano. Poco fa sono riuscito a prendere il treno, quello stesso treno che mi porterà lontano, anche se non ho la certezza su dove finisca questo “lontano”. Ma non importa. Con me non c’è Marion Cotillard, c’è finalmente soltanto silenzio. Perché ogni mattina io mi sveglio sempre alla stessa ora, sempre troppo tardi per fare le cose con calma; quindi so che dovrò affrettare il passo, correre, per prendere quel maledetto treno. Così per darmi la carica necessaria ascolto sempre un album spinto, come un berserk in mezzo alla battaglia, mi sfondo di adrenalina. E spesso lo faccio proprio con gruppi metalcore. Quando l’ho fatto con “No Heroes” ho pensato che non avrei trovato la mia stazione, perché mi sarei perso per sempre in mezzo a queste 14 stazioni di dolore. 

No Heroes” che cosa significa davvero? Perché nel 2022 dovremmo ancora pensare a un album simile? E’ davvero un album seminale? E’ davvero importante che lo sia? È un album metalcore del 2006, è il sesto figlio di un gruppo leggendario, i Converge che sono stati sicuramente in grado di aggiungere delle novità al mondo hc. Un album che scorre veloce, eccetto che per alcuni punti. Un cosa interessante, il fatto che ci siano dei rallentamenti nell’incedere di questo treno, perché sono proprio quei momenti che rischiano di dare maggior risalto al resto:il treno è fatto per portarti da qualche parte, farti scendere alla stazione che preferisci.

Io mi immagino spesso, mentre percorro la via per la stazione, di essere inseguito da qualcuno. Quando Jacob Bannon canta comincio a temere il peggio. Perché il basso di Nate Newton sembra una coltellata nel costato e questa, da bassista, è una delle cose che mi piacciono di più dei Converge, il fatto che il basso si senta. Ho persino paura ad avvicinarmi alle vetrine, perché i manichini potrebbero anche strapparmi il cuore, se solo capissero il vero significato di Sacrifice o Vengeance o Plagues (Mastodontica, in tutti i sensi). Nella prima parte del disco ci puoi sentire gli Slayer, è vero, ma non è altro che una dichiarazione di intenti; io ci sento tanto vuoto, tanta assenza di un contenuto ben definito ma la creazione di spazi brevi e sparsi come le foto di un killer sul letto di un motel. Sono tutte canzoni brevi, diverse tra loro, accattivanti, soprattutto quando sei distratto. Non ti ci devi concentrare, devi lasciarti trasportare per comprendere l’assenza di un assetto predefinito. Come una delle città di Lovecraft, o come i sogni di “Inception”, No Heroes ti prende per la mano e ti conduce, con malinconia, verso un romanticismo mascherato da abuso, da violenza, sull’orlo del nulla cosmico.

E in quest’album c’è una perla, una canzone per cui varrebbe la pena, da sola, andare a comprarlo anche a Timbuctù: Grim Heart/ Black Rose. Questa volta Bannon canta in maniera più pulita, la struttura del pezzo è davvero definibile come struttura e quello che viene fuori è incredibile: ci sono i Tool, ci sono gli Opeth, c’è un messaggio. I Converge sono in grado di fare anche meglio quando non fanno soltanto puro metalcore. Si dice che sia più difficile far ridere che far piangere, una lezione che questi ragazzi di Salem hanno imparato ma preferiscono tenere ben custodita a chiave.

E la seconda parte del disco è clamorosa, per differenza di ritmi, evoluzione di voce e qualità di esecuzione dei pezzi. Un disco dove l’orecchio di Kurt Ballou è stato decisivo in positivo. Perché da qui comincia il delirio. Lonewolfes, cioè The Locust, The Dillinger Escape Plan insieme per creare un mini inno alla desolazione. Trophy Scars è un rubino, con un Ben Koller in stato di grazia, chitarra tagliente come un rasoio e un muro di suono che si alza negli ultimi 40 secondi gigantesco, carico di emozioni e con una melodia di sottofondo da brividi. To The Lions ha una massa che è figlia dei “Machine Head”, più che di un gruppo metalcore, pazzesca. 

Al di là delle lodi, dei voti altisonanti che la storia ci ha consegnato, di quello che si inserisce come una pietra miliare del genere, non credo sia corretto limitarsi a rimarcare l’ovvio in un lavoro del 2006. La cosa importante è ritrovare il filo di Arianna in questo labirinto di genere che è il metalcore, dove tutto sembra suonare uguale, indistinto. Non è così per i Converge, perché loro il genere lo hanno domato, hanno guardato nella bocca della bestia e ci hanno vomitato dentro il loro grido di disperazione,  distinguendosi per le linee di basso accentuate, una batteria che sembra uno stern sparato nelle Langhe, una voce che cambia per quasi tutte le tracce, un concept che si sviluppa dall’inizio alla fine. 

Il significato di questo lavoro è proprio rivolto agli antieroi: chi dalla società è oppresso, schiacciato, sconfitto. Bisognerebbe far ascoltare lavori come questo a chi denuncia il mondo del metal come privo di veri significati artistici. La stessa dedica esplicita del gruppo, un album dedicato a chi “sposta le montagne un giorno alla volta” è una dichiarazione artistica perfetta per dispiegare questo album nella via del tempo. 

Come per Lovecraft esistevano montagne dove viveva la follia, per i Converge esiste un mondo fatto di tentativi e fallimenti. Questa, è una vittoria da riascoltare “nunc et semper”.

E mentre sono in treno, guardando scappare dietro il vetro sporco il mio giorno, penso che anche io, in fondo, sono tutto fuorché un eroe.

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