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“Ultramega Ok”, il peccato veniale dei Soundgarden

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Nella prima metà degli anni ’80, la città di Seattle ribolle di energia creativa. La commistione creata dal fervore culturale dell’Università di Washington, dal fiorire di una moltitudine di locali che promuovono giovani band dei dintorni, uniti alla rabbia della working class che monta a seguito del progressivo fallimento delle politiche economiche del neoeletto presidente Ronald Reagan, genera una scena musicale che ben presto diverrà unica e non replicabile altrove.

Il grunge non è da subito un fenomeno universale, lo diventerà con gli anni, ma molti dei simboli visivi utilizzati dai protagonisti autoctoni – camicie di flanella, scarponi da boscaiolo e jeans consumati – saranno ripresi ai quattro angoli della terra a mo’ di simulacri, surrogati materiali di uno stato d’animo immaginato e di cui ci si rende pienamente conto solo poggiando i piedi sul suolo della Città di smeraldo.

Da quelle parti esiste un gruppo, poi sciolto, chiamato Shemps: è un trio, vi fanno parte il cantante e batterista Chris Cornell, il bassista Hiro Yamamoto e il chitarrista Kim Thayil. Per qualche tempo i tre si separano artisticamente, ma restano in buoni rapporti e per diverso tempo frequentano gli stessi ambienti, come ad esempio le feste organizzate nei vari locali dalla stazione radio indipendente KCMU, di cui Jonathan Poneman è spesso protagonista con i suoi dj set. Dopo un po’ si ritrovano a suonare insieme, ma stavolta Chris vuole concentrarsi esclusivamente sulla sua voce: dopo una breve ricerca, le bacchette vengono quindi affidate a Matt Cameron, appena fuoriuscito dagli Skin Yards, uno dei gruppi pionieri della scena alternativa della zona di Seattle. Il nome scelto dal gruppo è Soundgarden, omaggio a un’installazione realizzata qualche anno prima dallo scultore Douglas Hollis. 

Dopo una serie di esibizioni in giro per la città, i quattro vengono notati dalla C/Z Records, etichetta indipendente che da tempo promuove e produce ciò che ritiene essere il meglio dell’underground di Washington e dintorni. I loro inediti Heretic, Tears to Forget e All Your Lies finiscono così nella compilation “Deep Six”, una pietra miliare di quell’incubatrice espressiva successivamente ribattezzata grunge. 

Qualche tempo dopo è Poneman in persona ad ascoltarli – in una delle tante KCMU nights di quei tempi – e non può fare a meno di esclamare che i Soundgarden incarnano tutto ciò che la musica rock dovrebbe rappresentare. Li adora così tanto che fa di tutto per produrre un loro disco, arrivando a offrire ai ragazzi ventimila dollari di tasca sua. C’è un solo problema: Cornell e i suoi scrivono e suonano, Poneman fa il dj e finanzia il progetto, ma manca un produttore. E’ così che a Kim torna alla mente un suo amico, Bruce Pavitt, che cura una fanzine ma al contempo ha una voglia matta di fondare un’etichetta per produrre i dischi degli artisti di cui scrive un gran bene. Quella rivista si chiama Sub Pop, un marchio che pochi mesi dopo campeggerà sui primi due EP “Screaming Life” (1987) e “Fopp” (1988): i Soundgarden, in pratica, rappresentano uno dei pochi casi nella storia in cui una band ha il potere di far incontrare i due futuri soci dell’etichetta discografica che ne produrrà gli album.

(c) Charles Peterson

Quando giunge il momento del grande salto, un vero e proprio long al quale i quattro stanno lavorando ormai da diversi mesi, Susan Silver – compagna di Chris e manager del gruppo – comunica una decisione inattesa e per certi versi soprendente: i Soundgarden hanno firmato un contratto con la californiana SST Records, label fondata da Greg Ginn dei Black Flag e che nel suo roster ai tempi vantava gente del calibro di Sonic Youth, Screeming Trees e Dinosaur Jr. Se si leggono le cronache dell’epoca, l’area nord occidentale degli Stati Uniti era vista come una sorta di succursale della California: l’opinione dei produttori, al pari di quella dei critici, era di creare una dislocazione dell’heavy metal losangelino in quella che era ritenuta una periferia più fredda e inospitale. La decisione immediatamente conseguente fu quella di affiancare ai Soundgarden il produttore Randy Burns, che da poco aveva raccolto da terra Dave Mustaine, licenziato dai Metallica, facendone il leader e deus ex machina dei Megadeth. Ma Burns non vuole trasferirsi a Seattle, quindi la scelta ricade su Drew Canulette, un ottimo produttore heavy metal e uomo di punta della SST, ma che la Città di smeraldo non l’ha mai vista nemmeno in televisione.

I lavori per il disco partono con le migliori intenzioni, la band è affiatata come non mai, tanto che nonostante l’ancora scarsa esperienza in sala di registrazione inanella una serie di sessioni entusiasmanti. In breve tempo nascono Flower e una rivisitata All Your Lies, un doppio manifesto programmatico, l’indemoniata Circle Of Power, quei piccoli capolavori che sono He Didn’t e Mood For Trouble, e Smockestack Lightning, una cover dei leggendari Howlin’ Wolf. L’unico anello di congiunzione con la Bay Area di Los Angeles sembra essere Head Injury, un pezzo che oggettivamente può essere spostato in qualsiasi disco degli esordi dei Megadeth senza che nessuno si accorga di nulla. Oltre alla produzione distintiva e al tributo del rock che fu, i Garden non esitano a omaggiare in modo inedito ma non meno evidente i totem del passato. E’ il caso della sabbathiana Beyond The Wheel e della zeppeliniana Incessant Mace

Ma non è ancora tutto. Con buona pace di chi non lo ha ancora capito, a Seattle si respira aria nuova, che all’impegno sociale e accademico (molti dei protagonisti di quell’epoca erano studenti della University of Washington) unisce un poliedrico senso dell’umorismo, soprattutto a tinte oscure. Dalle parodie delle diverse ossessioni sul paradigma del rock associato al satanismo nascono 665 e 667, due numeri circostanti a quello più diabolicamente noto. A queste fa eco Nazi Driver, non una parodia ma un modo malignamente scherzoso per augurare ai nazisti lo stesso “caldo” trattamento riservato agli ebrei nei campi di concentramento. La conclusiva One Minute Of Silence è la ripresa di Two minutes of silence di John Lennon e Yoko Ono, sulla quale Chris  raccontò di quanto fosse difficile tenere chiusa la bocca di Kim per più di un minuto. La sua voce in sottofondo ne è la prova.

Alla band piacciono così tanto le nuove canzoni che decidono di intitolare il disco “Ultramega Ok”, frase attribuita all’immediata reazione di Kim a lavori ultimati. Ad impreziosire il disco c’è la foto in copertina scattata da Lance Mercer, il fotografo del Grunge che aveva appena terminato il lavoro per “Hallowed Ground” degli Skin Yard e che in seguito, a partire dall’embrione dei Mother love bone, diventerà l’art-worker ufficiale dei Pearl Jam.

Purtroppo, data la diversità di vedute con Canulette, il prodotto finito non soddisfa per nulla le orecchie della band. E’ chiaro l’intento di tirare fuori un album di genere metal, motivo per cui viene accentuata la compressione dei suoni: le basse frequenze dominano, mentre ai riff di Kim e alla graffiante voce di Chris viene assegnato un ruolo da comprimari. Non è questo l’effetto che la band voleva ottenere. L’equivoco risiede nel fatto che la SST, sull’onda del successo del metal di fine anni novanta, voleva produrre un gruppo simil-Metallica, roba non certo nelle intenzioni dei quattro di Emerald City. Così Chris, sdrammatizzando in tipico Seattle style, ascoltando il disco esclama: “Più che Ultramega Ok, direi Ultramega Alright”.

“Ultramega Ok” avrebbe potuto essere uno degli esordi più folgoranti della storia del rock, di sicuro ai primissimi posti di qualsiasi classifica del genere grunge. Invece a distanza di quasi 35 anni siamo qui a parlare di un mezzo passo falso, un errore dovuto forse all’inesperienza della band nella gestione del confronto con le tante case discografiche – anche major – che avrebbero fatto carte false pur di accaparrarseli. 

Quel peccato veniale fu presto perdonato. Al termine del tour – che li vide per la prima volta varcare i confini degli USA in direzione Europa – Chris e soci tornarono immediatamente in studio, cedendo ben presto alla corte sfrenata della A&M di Herb Alpert e Jerry Moss, anch’essa californiana e fresca di acquisizione – per la modica cifra di 500 milioni di dollari – dalla PolyGram. Quel contratto sarà la prima pietra dell’epoca d’oro dei Soundgarden: nel periodo che va dal 1989 al 1994 vedranno infatti la luce “Louder Than Love”, Badmotorfinger e Superunknown.

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