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Brian Eno – ForeverAndEverNoMore

2022 - Verve / UMC
elettronica / ambient

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Tracklist

1. Who Gives a Thought
2. We Let It In
3. Icarus or Blériot
4. Garden of Stars
5. Inclusion
6. There Were Bells
7. Sherry
8. I’m Hardly Me
9. These Small Noises
10. Making Gardens Out of Silence


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Sarà pur pleonastico dirlo ma l’apporto fondamentale che ha dato Brian Eno alla musica contemporanea non potrà mai essere né pareggiato da alcuno né esplicato con semplici parole. In qualità di produttore è riuscito nell’intento – non del tutto semplice – di spingere band e artisti già di per sé avviati verso il futuro ad entrarci ben prima che esso soggiungesse, anche se non sono pochi i detrattori che lo hanno definito una sorta di freno in certe occasioni. La certezza è una sola: Eno è una presenza ingombrante e ogni suo disco non può passare inosservato.

L’Eno vocale mancava in questa maniera da un po’ e sembra che quello di “Here Comes The Warm Jets” sia giunto infine a compimento, incontrando il se stesso del “domani” già inconsciamente presente e accordandosi per fondersi totalmente con quel del presente. Potrà sembrare un pensiero astruso (di certo lo è, però statemi dietro) ma il discorso che il produttore inglese fa circa la sua voce, ovvero che è cambiata, è più bassa e quindi da questo punto può partire uno spunto contenutistico differente, ché non può cantare per sempre come un teenager e questo lo ha portato a poter toccare situazioni diverse, concetti di altro tipo, persino un album interamente vocale, che non è cosa da tutti i giorni quando si parla di questo personaggio (era dal 2005 che non si buttava in un progetto di questa specie).

Ora che però il futuro è giunto, “ForeverAndEverNoMore” suona come uno snodo indefinito tra retrofuturismo e una strada già battuta posta su un sentiero scoperto dall’autore stesso in tempi non sospetti. Le liriche che Eno imbastisce sono sospese in un tempo e un luogo che hanno accezione atemporale fino ad un certo punto, certo è che le questioni o le certezze che si pone hanno validità sempiterna, perché il mondo osservato dalla galassia pare non cambiare mai, se non in peggio. L’uso della voce è anch’esso in sospensione, quasi in assenza di gravità, appaiono come rituali alieni semplificati, dubbi e domande si accalcano all’uscio di un’astronave che orbita attorno al pianeta e rende il tono sempre più buio e acre, se ne fa un uso che spesso travalica l’idea di semplice canto (ad esempio i raddoppi innaturali di Garden Of Stars che si fanno strumento a parte). Le parole in sé sono crucci, domande una accatastata sull’altra, ricordi a mo’ di fotografie, visioni oscure e talvolta astratte per un mondo alla deriva visto (va ricordato) da un uomo di 74 anni.

Questo “strumento aggiuntivo” va a braccetto con le parti suonate, presenti in maniera fantasmatica, un tappeto omogeneo privo di spunti e appigli su cui è facile far scivolare le parole, anche troppo, e questo finisce per creare ripetitività. Non ci sono intrusioni che destino interesse o un tocco d’altro che non sia un mondo ampiamente esplorato, con la chitarra a suonare “come sempre”, synth e piano anche e questo la dice lunga sul percorso intrapreso dall’Eno compositore, qui più intento a dare una forma al parlato che allo spartito, sebbene i suoni in fase di produzione finale siano pur sempre tra i migliori in circolazione. Qui sta il nodo della questione: questa non è musica per installazioni artistiche eppure lo sembra a tutti gli effetti. Se il desiderio era quello di cantare la fine del mondo si è scelto di farlo unidirezionalmente, cosa che ha infine ucciso la possibilità di farlo toccando altre corde che non fossero quello di un disteso scoramento emotivo che, di brano in brano, finisce per venire abusato.

Non è possibile definire in modo tranciante un album di Brian Eno. Non può essere orrendo ma nemmeno più qualcosa che possa in qualche modo sbilanciare un mondo – quello dell’elettronica in senso ampio – che dai suoi primi, pionieristici lavori ha fatto balzi giganteschi in avanti e che, oggi come oggi, si trova comunque ad affrontare un problema simile: ora che il futuro descritto “in passato” dal “genere” stesso è arrivato, che strada si può prendere per vedere ancora più in là?

La zona grigia non ha pietà di nessuno, nemmeno di colui che, ormai quasi cinquant’anni fa, ha cambiato le regole del gioco.

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