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Back In Time

“Youth Attack!” dei Charles Bronson: this is hardcore

Andavo in giro per i palazzi della città. Per i condomini e i palazzi, ma anche per i garage e le catapecchie, i pollai. Iniziava a fare freddo e di mattina mi mettevo la felpa. A volte indossavo anche il K-Way datoci in dotazione dalla società polisportiva San Giacomo, che mi andava ancora bene nonostante fosse di dieci anni prima. In questo modo, così bardato, riuscivo a resistere in bicicletta, se c’era aria. Lo zaino pesante e pieno di moduli mi buttava all’indietro mentre pedalavo, ma era necessario portassi il carico dall’altra parte della città, perché lavoravo come censore per abitazioni e popolazione dell’ottobre del 2001. Per poter diventare censore, superai delle selezioni assieme ad altri candidati, ci avevano raggruppati in un palazzetto dello sport dove, a mia memoria, non si è mai svolta una manifestazione sportiva. Ci hanno fatto i vaccini sino allo scorso anno ed i suoi muri sono ricoperti da scritte sul governo, il fascismo e le siringhe.

Iniziavo presto, alla mattina, in modo da trovare qualcuno ancora in casa, prima che andasse a lavorare. Le mattine di ottobre, alle volte, somigliano tantissimo a quelle estive: la foschia che sale dai fossati, i semafori ancora lampeggianti, il sole che passa rado attraverso gli alberi dei parchi, la stessa musica che ascoltavi d’estate nelle orecchie che non vuoi mandar via, nonostante si stia avvicinando l’inverno. Entravo negli androni e mi fermavo, in ogni palazzo, ad annusare l’aria che respiravo. Se la notte era stata fredda o piovosa, l’odore acre di muffa delle cantine mi entrava nel cervello e nelle ossa. Era un odore che, ci scommettevo, se ne sarebbe andato via solamente in aprile. 

Ascoltai per la prima volta “Youth Attack!” durante quell’estate appena trascorsa, in macchina con amici, aspettando di metterci in viaggio. La cassetta nella Citroën aveva registrato su un lato “Flight Of The Wounded Locust”, che era uscito per GSL proprio in quell’anno, e sull’altro il primo ed unico full length dei Charles Bronson, gruppo di cui sino a quel momento conoscevo solo la famosa stampa dell’attore americano sulle magliette nere. 

“Senti qui che mosh”. E si arrivava alla fine di I Just Can’t Avoid the “Void” in “Avoid”, mille accordi. Testi lunghissimi, che non capivamo come potessero essere cantati in meno di trenta secondi di canzone, perché sembravano dei veri e propri poemi. Titoli che potevano, da soli e per la prima volta in una band punk, rappresentare un testo a sé stante, canzoni introdotte da spezzoni di altre canzoni o persino con un America The Beautiful interrotta da una raffica di mitra. 

“Hard / 1997 / Core”, questa la scritta della foto segnaletica appesa al collo di Charles Bronson in persona in copertina. Era quindi anche questo ciò che eravamo soliti chiamare “hardcore”? Si poteva quindi suonare così e registrare un LP mantenendo sempre la stessa, impazzante, velocità? 

“Youth Attack!” uscì per Lengua Armada Discos, un’etichetta di chiare vedute progressiste gestita da Martin dei Los Crudos, che anche loro venivano da quella zona degli Stati Uniti. Sotto la dizione di “hardcore”, all’epoca, vi era un universo sconfinato di sfumature e particolarità: attitudinali, musicali e politiche. Esisteva e spopolava quello di stampo Victory con Snapcase e Bane al comando. C’era l’inossidabile New York HC, capace come non mai, in quegli anni, di assorbire le sonorità metal e oi! di Leeway e Warzone e di spargerle per tutto il pianeta. In California, poi, aveva affondato le proprie radici nei nuovi gruppi Bay Area lo skatecore di RKL e Nofx. Nessuno però, aveva mai parlato di politica e società sino a quando i Charles Bronson non scrissero “Youth Attack!”. Un disco provocatorio e giovanile, che con una violenza diversa riuscì in brevissimo tempo ad arrivare ai punk vecchio stampo come ai ragazzini sullo skate. Una violenza che non risiede solo nella sua velocità. “Youth Attack!” è un manuale, un galateo. Ti dice come comportarti, seziona la realtà e poi, con uno spiccato manicheismo, indica cosa sia giusto e cosa sbagliato. 

Tagliavo per il centro città ascoltando solo quei tredici minuti di disco e mi meravigliavo che le campane dei campanili suonassero anche in quella zona. Nelle pause tra una canzone e l’altra tendevo l’orecchia serpeggiando sul pavé. Pensavo fosse un lusso che solo i paesi di provincia si potevano permettere, quello delle campane. Al massimo, i quartieri residenziali, dove gli anziani andavano a messa ogni giorno fermandosi nei primi bar dei cinesi a prendere il caffè una volta terminata la funzione. Le sentivo rintoccare tra l’impassibilità e la noncuranza di chi andava a lavorare nelle banche e di chi apriva i negozi alzando rumorosamente le saracinesche, quasi come a far capire a tutti che stessero iniziando la propria attività. Una volta, quando stavo rientrando che era già buio, dal mio giro quotidiano per garage, appartamenti e seminterrati, le vidi persino muoversi, nell’ombra della provincia. Erano le campane di una chiesa nascosta tra le case basse e ricoperte di edera di una via secondaria, sempre umida e mal frequentata. Sempre quel lato della cassetta, sempre quel disco, sempre quelle stesse canzoni e quegli intro. Iq 32 dei Necros e Punch Drunk degli Hüsker Dü le cover, come a rimarcare che nel più importante disco powerviolence di sempre, i rimandi al punk rock siano da cercarsi nel Midwest, dimenticandosi delle costiere assolate della California. Anche se i testi e le canzoni furono paradossalmente scritti dopo che la band si sciolse, proprio in quell’anno, i Charles Bronson riuscirono a conquistare il mondo del punk con la loro presenza, iconica e minimalista al tempo stesso. Come le loro grafiche.

“Charles Bronson – Delkalb Satanarchy” lessi su una toppa, un giorno, ad un concerto. Il solito carattere, gli stessi colori del disco.  Mi ero già comprato la maglietta nera con la foto segnaletica, dove si stagliava quel “1997” impavido, a sancire un patto con il tempo. No mercy, XDumbfucksX, Bulldog Records. Non ci vedevo nulla di satanico ma andava bene così, stava ripartendo tutto ciò che venne abbandonato dalla seconda metà degli anni ’80. A dire il vero, non ci vedevo nemmeno nulla di anarchico. Mark McCoy aveva sempre avuto idee politiche socialiste e libertarie, ma non credo si potessero assimilare a qualcosa di strettamente sovversivo. I colpi di mitra che fanno finire nel sangue una commemorazione per il Quattro Luglio, ad esempio, non rappresentano un attacco alle istituzioni: ci scherzano, se ne prendono gioco per dare inizio ad una canzone, Fuck Technology, I’ll Keep My Pocket Change, che parla di come un lavoro in banca, una villa sulle rive del lago e poche ma semplici letture non salveranno il mondo dal suo inevitabile declino.Lo scegliere come nome e rappresentazione del proprio gruppo una personalità conservatrice e razzista come quella dell’attore – icona della violenza e dell’uso delle armi negli Stati Uniti fu un atto quasi liberatorio, per quei quattro ragazzi appartenenti alla middle class americana. Dopo il loro scioglimento e l’aver ascoltato e comprato alcuni dei loro split precedenti alla pubblicazione di “Youth Attack!” (clamoroso quello con gli Unanswered dal New Jersey, che contiene Phil Anselmo’s Pain Burns In The Heart Of My Little Brother), provai a seguire la carriera di McCoy, ma rimasi abbastanza deluso dal debutto degli Oath, che trovai troppo poco fast e fin troppo violenti. Era finita un’epoca durata il giusto tempo. Qualche split, un paio di raccolte e poi un album intero. Tredici minuti, venti canzoni: dovrebbe essere sempre così. I ragazzi avevano avuto il their say, ma noi, ad ascoltarli in macchina prima di partire per una vacanza estiva, ancora no. “The future looks so bright if you never stop to think about it”. Ed infatti arrivai con successo alla fine di quella mia odorosa e poco rinfrancante seconda esperienza lavorativa.

“Chissà come si viveva a Delkalb, sul Lago Michigan, nel 1997.”

“Ci sarà stato un sacco di vento.”

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