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Ristampe e Dintorni

Codeine – Dessau

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Ci sono cose che vengono perdute per strada, anche volutamente, dimenticate, ma così pregne di ciò che è stato fino ad un attimo prima da poter far male nell’immediato. Il tempo fa il suo corso e tra il momento in cui esse sono state rinchiuse nell’archivio più profondo e sperduto e quello in cui un gruppo di “digger” incalliti come sono i membri di Numero Group la Storia ha preso pieghe completamente differenti come, ad esempio, la pubblicazione di un album definito dagli stessi componenti dei Codeinenon di certo ‘Nevermind’ per il resto del mondo, ma per noi ha lo stesso peso”, uno di quei lavori che diventano capolavori, creano suoni e realtà fino a quel momento esplorate da pochi pionieri.

Prima che Chris Brokaw abbandonasse la nave, però, il germe di “The White Birch” era stato piantato su nastri che verranno poi disconosciuti, anche se le idee che contengono sono rimaste impresse a fuoco nelle menti dei loro creatori, tanto da trasporle in quello che è all’unanimità uno degli album più importanti e imponenti dei Novanta, senza il quale un genere come lo slowcore non sarebbe potuto germogliare come ha invece fatto. Forse non era il momento giusto per far vedere a quello che oggi chiamiamo “Dessau”, nome derivato dall’Harold Dessau Recording in cui, nel 1992, Immerwahr, Engle e Brokaw diedero vita quel che sarà di lì a breve.

Oggi viviamo in un mondo in cui un disco perduto può avere un peso e una rilevanza tutta sua, intrappolati come siamo nella ricerca di un passato pesante che non vogliamo né che sia del tutto scordato e lasciato indietro a prendere polvere né che ci lasci con le incertezze di un presente saturo di qualità spesso scadente che finisce a volte per adombrare quanto di buono invece continua ad essere creato, anche sulla scia dei numi tutelari di ieri. È qui che “Dessau” acquisisce un suo perché, un motivo e una forma. Troviamo la spinta iniziale di quelle Sea, Tom, Wird e Smoking Room che poi vivranno di vita loro appena l’anno successivo, ma che qui si frappongono tra la nostra visione dei Codeine e una loro fotografia reale, seppur sgranata. La lentezza di “The White Birch” e il suo scintillante fango sono un accenno, perché si sente qui un’urgenza lasciata poi stingere in altro tipo di paranoia grigia.

Le parti di batteria del co-leader dei Come sono chiaramente l’ago della bilancia, la maschera che una volta caduta ha mostrato un altro volto. Nell’imperfezione e nella natura in accenno si fanno strada picchi di ferocia, chitarre urlanti e non avvolgenti (quand’anche magmatiche), capaci di stroncare l’amarezza e renderla furia, nevrastenia difficile da imbrigliare. Sembra che il trio ragionasse meno e azzannasse di più, preso in una morsa che stritola sembianze post-hardcore e noise rock molto più marcate, segnanti e creatrici di uno squilibri difficilmente mansueto – se di calma si può parlare anche con il “vero” secondo album dei Codeine -, come posseduto da una rabbia sepolta tra lacrime di cristallo annerito, sfregi che non hanno il sapore poetico delle versioni definitive ma capaci di tirare fuori sensazioni che altrove non sono più state che carezzate. Forse per fortuna. Oppure no, chi può dirlo?

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