Il disco di cui vado a scrivere lo considero una perla rara ma luminosissima della musica underground degli almeno ultimi trent’anni, nonché uno dei migliori lavori in assoluto del catalogo di quella magnifica realtà che fu, ed anzi è tuttora, la Dischord Records di Ian MacKaye, al pari solo di alcune altre leggendarie uscite di Minor Threat, Dag Nasty, Nation of Ulysses, Fugazi , Jawbox o Shudder To Think solo per citare alcune ed altre band grandiose edite per la stessa imprescindibile label, probabilmente massimo simbolo planetario riconosciuto di coerenza ed indipendenza artistica.
Era il 2000 quando un terzetto denominato Faraquet fece uscire il gioiellino in questione intitolato “The View from This Tower“. Gioiellino perché raramente si sono sentite armonie e melodie così riuscite che, nonostante l’amore per i tempi dispari e il math rock, non risultano mai fredde e, anzi, il più delle volte emozionano e commuovono. Qui infatti non c’è la stessa imperturbabile, nervosa e chirurgica freddezza “asettica” degli Shellac per intenderci, troviamo anche una sensibilità emo old-school tipica di casa Dischord, insieme a certo post-rock non propriamente canonico soprattutto per quel periodo, abbastanza vicino a quello dei primi Karate o dei June of 44. Infine, c’è spazio perfino per un retrogusto di jazz seppur ovviamente non convenzionale e con echi e soluzioni vagamente avvicinabili alla bossanova. Qualche addetto ai lavori lo inserisce nel calderone del post-hc, probabilmente come concepito dalle band della Dischord o come lo hanno inteso i Minutemen molto prima ancora, ma nei Faraquet di hc c’è più che altro solo l’attitudine.
I Faraquet furono creati nel 1997 dal batterista Devin Ocampo degli Smart Went Crazy, altro validissimo gruppo semi sconosciuto sempre in orbita Dischord che si sciolse poco dopo, nel 1998, autori di almeno un ottimo disco Con Art del 1997, e che decise di accantonare la batteria in favore della chitarra nonostante a detta sua non la sapesse suonare e non fosse nemmeno troppo consapevole di cosa facesse. Ed è veramente sorprendente per chi ascolterà il disco, perché sfido qualunque musicista anche professionista ad avere tale leggerezza ed essere capace di suonare uno strumento non proprio, così bene, tanto da sembrare addirittura più bravo rispetto al proprio strumento originario; non che per carità fosse un batterista scarso ma il suo modo di suonare la chitarra in “The View From This Tower” ha qualcosa in più, così naturale ed istintivo tanto da risultare anche originale e quasi magico. Devin Ocampo è un caso più unico che raro, oltre che chitarrista è anche cantante e polistrumentista, in quanto suona occasionalmente pure banjo, tastiere e tromba in questo progetto musicale, affiancato al basso dal fidato Jeff Boswell, già con lui nei Smart Went Crazy e dalla batteria super ritmica di Chad Molter. I Faraquet furono una meteora perché durarono solo quattro anni, fino al 2001, praticamente giusto il tempo di portare in tour il lavoro in questione, di spalla neanche a dirlo ai Fugazi. La brevissima ed inspiegabile durata della loro carriera musicale di certo non aiutò a far conoscere il terzetto, che purtroppo non gode oggi della stima e dei riconoscimenti che meriterebbe.
I brani che compongono “The View From This Tower” sono articolati e con una complessità ritmica notevole, ricchi di cambi di tempo repentini ed improvvisi, caratterizzati da scelte armoniche e melodiche mai banali, fantasiose e ricercate, ma al tempo stesso scarni, freschi, vivaci e leggeri. La sensazione è strana e difficile da spiegare ma sicuramente la loro idea non era quella di appesantire l’ascolto ma di renderlo il più possibile accessibile nonostante la proposta. Il disco fu prodotto da J. Robbins dei Jawbox e dei Burning Airlines, che soprattutto per quel tipo di sonorità probabilmente fu scelta azzeccatissima.
È vivida nella mia memoria la prima volta che ascoltai un loro brano; era nella compilation “20 Years of Dischord” del 2002, loro erano già sciolti ahimè, ma Cut Self Not contenuta in quel disco, che poi è il primo brano su “The View From This Tower“, catturò subito la mia attenzione e mi conquistò a partire dal giro di basso iniziale, dalle aperture melodiche e jazzate e dai vari sali e scendi emotivi che lo compongono, così come il finale sospeso che mi consigliava sostanzialmente di andare a riscoprire per intero quel disco. Così feci, e non me ne pentii affatto: infatti, anche il secondo brano Carefully Planned che compone il lavoro ha le splendide caratteristiche della canzone che me li fece conoscere, forse addirittura espresse pure meglio. Sembrava tutto facile per i Faraquet, l’abilità nel passare da un ritmo ad un altro totalmente diverso è sorprendente. Oltre alla notevole capacità di scrittura è incredibile la naturalezza degli arrangiamenti, che non risultano mai forzati ma anzi riescono a rendere il tutto fluido e sensato. Dopo un paio di altri ottimi brani leggermente più tirati, The Fourth Introduction e Song For Friends To Me, nei quali compare anche la tromba per la prima volta, ci si avvicina verso l’apice creativo del disco. Conceptual Separation of Self è un brano dispari delicato e di una dolcezza quasi nostalgica incredibile (qualcuno ha detto emo?) anche grazie all’aggiunta di archi che squarciano la tensione fino al crescendo centrale da pelle d’oca, un capolavoro. Mi ripeterò nuovamente ma raramente ho sentito ritmo e melodia unirsi in un matrimonio così perfetto come in questa meravigliosa canzone. La successiva e geniale Study in Complacency invece è più sostenuta ed ha un mood differente: il banjo che arriva all’improvviso è da applausi così come il ritmo sincopato subito dopo che fa da ponte per poi ripartire verso un finale sempre di grande spessore Il ritmo la fa da padrone ma arriva la melodia alla fine, c’è sempre, è inutile farsi false illusioni su questo disco, e quando arriva vorresti che non finisca più. Sea Song inizia dolcemente, prosegue con una sorta di “samba” in levare, per poi trasformarsi in un post rock sognante che lentamente evolve in qualcosa di più inquietante dal sentore di Slintiana memoria e poi infine cadenzato con la solita classe nel saper modellare e trasformare improvvisamente ogni canzone. Con la title track con i suoi controtempi iniziali sembra di ascoltare gli ultimi Don Caballero, quanto meno fino a metà brano, perché poi nuovamente si insinua la melodia ed il cantato delicato su una base però ovviamente non dritta, cosa difficilissima, tuttavia senza accorgersene si ritorna nel finale selvaggio dalle parti dei Don Cab.
Il finale dolce e sommesso, quasi più “standard”, di The Missing Piece, in cui si riaffaccia anche la tromba, non aggiunge nulla di più ad un magnifico lavoro e forse ascoltandolo oggi con più lucidità ed un leggero minor trasporto, quindi in maniera razionale (se possibile), quest’ultima traccia fa intravedere le sonorità più canoniche e lineari che riprenderà poi dopo Devin Ocampo con i Medications, altro onestissimo progetto che però non raggiungerà mai le vette creative con quel perfetto mix di “The View From This Tower“ dei suoi Faraquet.