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A tutto gas fra le mine: “You Kill Me” degli One Dimensional Man

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Oggi, ventuno anni fa, “You Kill Me” faceva la sua irruente comparsa nei negozi di dischi italiani. Certo, “You Kill Me” di italiano ha ben poco, se non la carta d’identità dei suoi ideatori (Pierpaolo Capovilla, Giulio Ragno Favero e Dario Perissutti), gli esseri uni-dimensionali che nel 2001 realizzarono questo album sotto le vesti di One Dimensional Man. Italiana è anche l’etichetta che pubblicò il disco, ovvero la realtà indipendente (per quello che può significare oggi questo termine) Gamma Pop. Se “You Kill Me” fosse spuntato tra gli scaffali dei negozi di dischi di Chicago o di Washington, D.C. per conto di un’etichetta come Touch & Go o Dischord, credo che nessuno avrebbe storto il naso – senza nulla togliere alla bolognese Gamma Pop, il cui catalogo è fonte di ottimi lavori made in Italy.

Considerando il momento socio-politico/bellico-economico in cui ci troviamo alla fine del 2022, prima di spendere qualche parola riguardo a “You Kill Me” credo sia opportuno ricordare il riferimento culturale verso cui tende il nome della band: il saggio “One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society”, scritto da Herbert Marcuse nel 1964. Marcuse, comunista tedesco di origine ebraica, è stato uno dei grandi filosofi marxisti che insieme ad altri importanti pensatori come Max Horkheimer, Theodor Adorno e Jürgen Habermas (per citare i più noti) ha contribuito a rendere celebre la cosiddetta scuola di Francoforte. Il motivo per cui “One-Dimensional Man” riscosse molto successo è da ritrovarsi nell’intreccio fra le sue tematiche e le prime manifestazioni della protesta studentesca;  la simultaneità tra l’arrivo del saggio marcusiano nelle librerie accademiche e lo scoppio della rivolta all’Università di Berkeley (settembre 1964 – gennaio 1965), infatti, non è una coincidenza.

“L’Uomo a una Dimensione”, il titolo dell’edizione italiana, contiene la tesi secondo cui l’ordine sociale dettato dall’industrializzazione permea di sé ogni aspetto dell’esistenza umana; in questo modello, la vita dell’individuo si riduce al bisogno atavico di produrre e consumare, senza alcuna possibilità di resistenza. Marcuse denuncia il carattere repressivo della società industriale avanzata, che si manifesta nell’appiattimento dell’uomo alla dimensione di consumatore euforico e confuso: uomo la cui libertà consiste nella sola possibilità di scegliere fra moltissimi prodotti diversi. Il filosofo francofortese ritiene che la società industriale contemporanea tenda ad essere totalitaria; non soltanto una forma di governo e di dominio politico producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e distribuzione – sistema che può benissimo essere compatibile con un pluralismo di partiti, giornali, di poteri che si controbilanciano. Questo processo di armonizzazione finalizzato alla riduzione dei contrasti, all’assorbimento del negativo da parte del positivo, conduce ad una unidimensionalità del pensiero che ne deriva.  

Insomma, se i fondatori del gruppo (i veneti Capovilla e Massimo Sartor – a cui poi si aggiungerà il batterista veneziano Dario Perissutti) scelsero One Dimensional Man come nome per identificare la loro attività musicale, lo fecero per evocare il valore storico dell’opera marcusiana e ricordarci  l’urgenza di una critica feroce alla società capitalistica. La nostra individualità non può essere schiacciata alla dimensione di consumatore privato da aspirazioni che siano diverse dal possesso dei nuovi prodotti della società industriale.

Passiamo alla musica. Nella storia dei miei ascolti, gli One Dimensional Man sono giunti piuttosto tardi. Prima di imbattermi in questo fantastico power trio bazzicavo musica prevalentemente estera: Rapemen, Big Black, Shellac, Melvins, Scratch Acid, Jesus Lizard, Jon Spencer, Minutemen, Sonic Youth, Fugazi e Nirvana popolavano le mie cuffiette, facendo stridere di gioia i miei timpani. Ciò premesso, è facile immaginare l’emozione della scoperta di un gruppo italiano in grado di incarnare e far proprio quello spirito musicale che, allora, sembrava essere un’esclusiva a stelle e strisce. (Scoprii solo successivamente che la realtà noise italiana degli anni ’90 era più popolosa del previsto; oltre ai precursori del genere, gli Uzeda, cito i De Glaen, per esempio).

Il primo disco – omonimo – della band capitanata da Capovilla riesce ad esprimere ancora oggi una furia sonora spietata e liberatoria: tredici tracce rabbiose, devastanti, impetuose e soprattutto avanguardistiche, considerando che segnavano l’album d’esordio di un gruppo italiano. Due anni più tardi segue “1000 Doses of Love!”, dove si registra la presenza di Favero al posto di Sartor alla chitarra; in questo disco la tensione sonica rimane elevata, anche se si registrano le prime smussature compositive rispetto al precedente “One Dimensional Man”: un che di melodico inizia a farsi spazio tra le idee della band; le dinamiche noise stranianti e allucinate cedono un po’ della loro presenza ad un blues più caldo e (leggermente) confortevole; la voce e il basso di Pierpaolo assumono sembianze più umane, mentre la batteria di Dario e le chitarre di Ragno si muovono verso le sonorità abrasive tipiche dei mix più maturi di Steve Albini. A distanza di cinque anni dal collerico debutto arriva il momento di “You Kill Me”, il disco più rappresentativo degli One Dimensional Man.

Trentasette minuti di musica divisi in quattordici brani che si collegano perfettamente l’uno con l’altro, grazie a botta e risposta continui fra le schitarrate chirurgiche di Favero e le linee ritmiche di un basso e una batteria che schiacciano quasi sempre l’acceleratore. I pezzi galoppano velocemente, sono serrati e riescono a coinvolgere l’ascoltatore in un batter d’occhio; questo è il risultato, forse, del recupero dell’impeto funesto di “One Dimensional Man” sotto il segno delle successive soluzioni più curate. Ne esce fuori un qualcosa di arrabbiato e accattivante, una combinazione diabolicamente intrigante. Ad eccezione di This Man In Me (riadattamento di una poesia dell’amico australiano Rossmore James Campbell – che curerà la scrittura integrale di un album più tardo, “A Better Man”), i testi di “You Kill Me” sono frutto della penna di Capovilla, che sembra far tesoro dell’insegnamento di  un giovane Iggy Pop secondo cui in una canzone sono sufficienti venticinque parole. (Parentesi: come si apprende nel bel documentario “Gimme Danger”, Iggy trasse ispirazione dal comico americano degli anni ‘50 Soupy Sales, il quale chiedeva ai suoi giovani fan che gli volevano scrivere una lettera di farlo con meno di venticinque parole, se proprio lo ritenevano necessario). Le parole scelte sono sufficienti per mettere in scena le emozioni più istintuali suscitate dai due poli verso cui tendono i sentimenti umani: l’amore e l’odio. Pierpaolo narra queste emozioni declinandole in situazioni limite, fornendoci così un’idea vivida dell’ampia gamma di reazioni che si innescano quando l’uomo transita vicino ad uno dei due cardini della sua emotività. C’è quindi spazio per il rifiuto, il risentimento, il disprezzo, come per la dolcezza e il godimento: un bel campo minato. Ed è inevitabile che ci siano un sacco di esplosioni se ci si muove a tutto gas fra le mine; nonostante questo gran casino, gli One Dimensional Man danno prova della loro maturità stilistica trovando lo spazio per alcuni momenti più calmi, decisamente essenziali per far riprendere fiato all’ascoltatore, lasciandogli così la lucidità necessaria per apprezzare tutte le sfuriate che caratterizzano l’album.

Il disco si apre con Saint Roy, pezzo che testimonia l’intelligente evoluzione della band verso lidi pop (senza per questo tradire la sua essenza più incontenibile e sfrontata) e getta in pasto delle nostre orecchie un sound di alta qualità che allo stesso tempo è sia massiccio che spigoloso. Il mood è positivo: sembra che l’oggetto delle nostre mire sia raggiungibile, a portata di mano. Eppure quando si è così vicini alla meta, il timore di non riuscire a concludere ci rende fragili. E infatti segue un brano dal sapore diverso – I Can’t Find Anyone –, dotato di un gran tiro nonostante alcuni inserti inaspettatamente orecchiabili; è il turno di This Man in Me, 1 minuto e 25 secondi incalzanti popolati da chitarre taglienti e dalle espressioni più poetiche dell’album. Sta poi a No North, caratterizzata da quegli arpeggi dissonanti che ci suonano in testa quando ogni punto di riferimento è andato perso; in Babylon si assiste ai lati più beffardi del naufragio di una relazione, mentre The Old Worm reifica quella sensazione grottesca che si prova nel trovare se stessi ripugnanti e odiosi, specialmente quando è l’altro a proiettarci addosso un’immagine distorta di noi.

Segue poi Inferno, la traccia più breve (1’20’’) e probabilmente più intensa di “You Kill Me”: Capovilla decide di portarci direttamente nel girone dei sodomiti, e nella foga della sua interpretazione si lascia scappare qualche parole in italiano, fornendo il primo indizio sulle sorprendenti origini degli One Dimensional Man. A sorpresa, in Sad Song si materializzano  attimi di dolcezza e di sincera umanità, anche se l’illusione dura poco: la successiva Lovely Song ci riporta ad una situazione emotiva più burbera e ruvida, caratterizzata da uno slancio vitale capace di trasmettere un’energia pazzesca a chi è in ascolto, in modo che si prepari al rapido scarico di adrenalina della successiva It Hurts (dove, a causa di un’altra interpretazione frenetica da parte di Pierpaolo, ci scappa una nuova frase italiano: «Ma porca miseria, proprio a me doveva capitare!»), ovvero 1 minuto e 30 secondi di dimenamento impulsivo e incontrollato.

Sarebbe tempo di una breve pausa, ma Elvis non ci lascia scampo fra cromatismi vorticosi e riff granitici; così, senza rendercene conto, giungiamo a You Kill Me, la canzone che condivide il titolo con l’album. Finalmente un po’ di calma, anche se ha il sapore della quiete prima della tempesta: avete presente quando s’insinua il dubbio se un certo rapporto sia costruttivo o distruttivo? Quando l’amore diventa talmente grande da non sapere più che cosa sia? Il narratore di Oh! Oh! sembra averlo presente, considerando il suo rancore verso una non meglio precisata donna di nome Rose. L’album si chiude con Broken Bones Waltz, pezzo che, al netto delle chitarre distorte e di un inglese così esasperato da sembrare una sorta di tedesco marziale, potrebbe essere il frutto della rilettura di uno spartito di Kurt Weill da parte del primo Nick Cave. Se “You Kill Me” inizia nel segno nel segno dell’amore, la sua conclusione si distingue per aver a che fare con una delle forme di odio più profonde. Non stiamo parlando del rancore incontrato in Oh! Oh!, bensì di una degenerazione massima dell’odio: Broken Bones Waltz è una canzone sulla tortura, il punto più basso e degradante che l’umanità può toccare, e Capovilla inscena un dialogo fra la vittima e il suo torturatore.

La terza fatica in studio degli One Dimensional Man rappresenta un lavoro veramente notevole, degno della migliore produzione alternativa internazionale. Il disco è invecchiato benissimo, rimanendo l’opera più riuscita del power trio unidimensionale, oltre che uno degli album italiani meno italiani che ci siano.  

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