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“Trainwreck: Woodstock ’99”: spettacolarizzare (male) l’apocalisse della cultura popolare

Dopo il paternalistico “Woodstock 99: Peace, Love And Rage” mi ero ripromesso di abbassare la serranda per quanto riguarda i documentari a sfondo musicale, quando la musica diventa un pretesto per lanciare strali totalmente a caso addirittura a distanza di così tanti anni da un evento specifico. D’altronde, e questa è una pecca per chi scrive, parla e vive di musica (e con vive intendo dal punto di vista puramente letterale, ché i soldi sono una chimera), non mi sono mai appassionato a questa tipologia di media, programmi che spesso partono da presupposti nemmeno lontanamente vicini al nucleo delle questione, per non parlare dei vari biopic dedicati a questo o quell’altro artista. In quel caso vado dritto alla scatola dell’Imodium per evitare l’ecatombe marrone.

Disattendere le promesse, soprattutto quelle che faccio a me stesso, è però regola fondante, e infine ho aperto Netflix e digitato nella barra di ricerca il nome del famigerato festival, il public enemy number one di tutti i festival mai creati, almeno su larga scala, quella del pop e che porta impresso a grandi lettere all’ingresso il marchio di MTV o, peggio ancora, lo spettro di qualcos’altro che fu e mai più sarà. La premessa dovuta è che chi scrive non potrebbe essere più lontano dallo spirito promulgato e passato di mano in mano come un testimone di quel che fu l’originale Woodstock, comunque altrettanto bistrattato e bersaglio di ben più di una critica (spesso propagandistica e legata alla politica), ma che col passare del tempo, e come tante altre cose, è diventato un semplice simbolo e metro di paragone da accostare all’inesorabile passare del tempo. Vecchi contro giovani anche nell’alveo della controcultura. Che poi la “Summer Of Love” abbia creato mostri e disagi immensi è comprovato, che poi come controcultura politica fosse pure fallace è largamente evidente, ma rimettiamo le pagine del calendario dove ci è utile.

Trainwreck: Woodstock ’99” sembra prendere posizione altra rispetto al suo “predecessore” (i due docu sono slegati, bisogna sottolinearlo), cercando di bilanciare una semplicistica e fuorviante descrizione demonizzante e inquisitoria tout court dell’accaduto, che è stato, se fosse necessario ripeterlo, oltre ogni ragionevole dubbio uno schizzo di vomito su una coperta altresì bella, ovvero quella della stagione dei grandi festival alternativi d’Oltreoceano, presto spenta dal lungo getto di piscio dell’assimilazione, ma ci torneremo in seguito. Nell’arco di tre puntate da poco meno di un’ora ciascuna, la serie diretta da Jamie Crawford si rivela essere, né più né meno, il solito documentario Netflix-style, sia per impianto meramente visivo sia dal punto di vista dei contenuti, segno di un generale appiattimento di offerta e richiesta. Oltre una certa distanza non si vede più nulla, semplificando.

Semplificare è proprio quello che accade sempre più spesso. Sebbene, come dicevo poc’anzi, la posizione presa è diversa, non lo è l’utilità. Le voci prese in considerazione sono bilanciate, tra gli utenti “civili” che all’epoca si trovavano in mezzo alla bolgia, ai cronisti e presentatori MTV, fino a uno sparuto numero di artisti. L’idea che emerge è bene o male: we’re only in it for the money. Il che potrebbe essere un aspetto da approfondire ma che, in realtà, si attesta solo nel suo essere più superficiale. Quello che invece emerge è come si cerchi la spettacolarizzazione del disastro predetto sotto forma di commento ambivalente. Da un lato l’idea bestiale di raggruppare tutto ciò che era cultura contro sul finire dei Novanta, dall’altra puntare il dito sugli organizzatori, una manica di squali che ancora oggi non si sono resi conto davvero del delirio scatenato dalla propria incapacità di leggere il tessuto sociale.

La digressione dovuta è proprio questa: l’attenzione maggiore dovrebbe vertere sull’impossibilità del tutto voluta delle generazioni “passate” di scansionare a dovere l’ambiente da loro creato e in cui quelle “presenti” si trovano a dover vivere, per imposizione, e impossibilitate a far deviare il corso di un fiume sempre più limaccioso. Lo sforzo (e questo potrebbe anche andare bene) tocca allo spettatore, che deve tenere a mente quello che i suddetti GenX e Millennials hanno dovuto affrontare – ad esempio l’essere ignorati dalle istituzioni – per meglio comprendere la ragione per cui centinaia di migliaia di giovani si sono trovati a voler appiccare letteralmente un incendio ad uso e consumo dei media sbavanti presenti all’evento. È il modo intrinseco della società di massa di divorare, masticare e poi rigurgitare quanto una cultura giovanile abbia da dire, giusto il tempo di monetizzare e farlo senza remora alcuna. Di tutto questo, nel corso degli episodi, si parla sì, ma in modo marginale, per bocca di uno o dell’altro intervistato, ma senza la benché minima volontà di scavare a fondo in un atteggiamento che seguita a protrarsi ancora, 23 anni dopo, ma con conseguenze decisamente meno eclatanti. Non ultima l’assimilazione da parte di MTV di tutta una frangia artistica passata dal vivere sottoterra a respirare a pieni polmoni gli effluvi dei red carpet, e l’avere a tiro di microfono Tim Healy e Ananda Lewis, rispettivamente produttore e presentatrice dell’emittente musicale, senza uno straccio di domanda “scomoda” a riguardo è ulteriore spreco.

Dal mio punto di vista poche sono le voci interpellate sul versante “artistico”, giusto Jonathan Davis, Gavin Rossdale, Jewel e Fatboy Slim, di certo non abbastanza per avere un quadro completo di quel che dal palco era percepibile. Certo, loro stessi parlano di irresponsabilità, del marcio che è venuto fuori in seguito, nella fattispecie le accuse di stupro durante tutta la durata del festival. Di tutto questo si parla negli ultimi otto minuti dell’ultima puntata, marginalizzando qualcosa che avrebbe avuto bisogno di un respiro maggiore sia allora che adesso. Certo, durante le tre ore pubblicate sbucano immagini e testimonianze di comportamenti poco consoni, ma senza l’affondo decisivo.

La stessa assenza si registra per quanto riguarda il mondo circostante le mura divelte di Woodstock ’99, anch’esso dosato col contagocce, dando per scontato che “chi c’era”, ossia noi che eravamo già abbastanza grandi per capire oppure quelli che già in età adulta potevano informarsi a dovere, si ricordi come si svolgeva la vita giovane in quegli anni di cambiamento. Anni in cui le sordide identità da “confraternita” (alle nostre latitudini li definivamo semplicemente “truzzi” o “fighetti”, più propriamente bulli) si andavano a interpolare con quelle di coloro che vi si contrapponevano, destinatari della quasi totalità delle opere nu-metal e/o pop-punk allora create. Era il sintomo del grande che temendo il piccolo lo assimila, ma anche di una richiesta di aiuto inconsapevole di chi si credeva vincente ma non era in grado di gestire la pressione. Con questo non cerco di nascondere le colpe dell’essere bullizzante, che proprio tra fine ’90 e inizio anni Zero ha avuto ulteriore spinta e propulsione, anzi, ma andrebbe analizzato ancor più a fondo, e quale occasione migliore di un documentario per farlo? Poi mi sono ricordato che sta su Netflix…

A noi non resta altro da fare che guardare a cosa è andata incontro da allora la realtà. Apporre il nome “Woodstock” ad un festival svoltosi in anni naturalmente diametralmente opposti a quello in cui è stato concepito è stato un errore magistrale. I grandi festival musicali (va fatto un distinguo con quelli sotterranei che ancora hanno una loro identità potente), da allora, sono migliorati e, pian piano, si sono trasformati sempre più in “musei”, anzi, “musei delle cere”, se volgiamo il nostro sguardo ad eventi freschi di creazione come “When We Were Young” o “Sick New World”, vetrine acchiappa generazioni passate in cui si fa bella mostra di quel che resta di una stagione fiammante, forse anche l’ultima di reale importanza per la spinta in avanti sociale e artistica “di massa”.

Sempre più assimilati, più grigi e fermi, emblemi ultimi di un autocompiacimento onanistico di un passato che ancora pesa sul presente come un macigno ma da cui non prendere pezzi per costruire qualcosa bensì da adorare come ormai perduto. La differenza sta tutta lì: nel bene e nel male quei festival dipingevano l’oggi con tocchi di ieri come piccole esche per fare un soldo in più mentre questi eventi giganteschi e puliti sono la musica portata al museo e, come sosteneva Reynolds, forse non è proprio il luogo migliore in cui fruirne.

Regia: Jamie Crawford
Cast: Ananda Lewis, Colin Speir, Michael Lang, Jonathan Davis, Gavin Rossdale, Fatboy Slim, Jewel, Tim Healy, Lee Rosenblatt, Pilar Law, Lisa Law, John Scher, David Blaustein, Susan Spano, A.J. Srybnik, Kyle, Sara, Keith, Heater Eason Liposky, Scott Vincent e altri
Genere: docuserie musicale
Data di uscita: 3 agosto 2022
Episodi: 3

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