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“Vitalogy”, il confine tra la vita e la morte tracciato dai Pearl Jam

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Il biennio ‘91/’92 rappresenta indiscutibilmente l’epoca d’oro del grunge: il primo anno – soprattutto in estate – aveva regalato perle immortali come Every Good Boy Deserves Fudge (Mudhoney), Nevermind (Nirvana) e Badmotorfinger (Soundgarden), il secondo aveva visto nascere Dirt degli Alice In Chains ma soprattutto aveva incubato il successo di quelle band, ormai divenuto planetario. 

Nei due anni immediatamente successivi tuttavia, aderendo al principio di Newton, la vita opera una reazione uguale e contraria nei confronti di quei ragazzi e presenta il suo conto. In pochissimo tempo, la routine di provincia di un manipolo di giovanotti annoiati si trasforma nella perenne gestione di qualsiasi tipo di eccesso: droga, soldi, successo, faccendieri dal giro più o meno lecito che si propongono a qualsiasi titolo, sono solo alcuni esempi del cambio radicale del loro modo di condurre l’esistenza. A questa profonda mutazione ognuno reagisce a modo suo.

I Pearl Jam, che avevano contribuito alla magnifica produzione dei due anni d’oro nel 1991 con Ten, si trovarono immediatamente lanciati in un frullatore impazzito. Tra vendite e tour, l’album di debutto aveva fruttato cifre a sei zeri, heavy rotation dei video su MTV e proposte di sponsorizzazione per qualsiasi prodotto in grado di essere in qualche modo associato alla loro immagine. Ma ancora non bastava. I critici musicali, gli opinionisti e gli addetti ai lavori avevano deciso di alzare l’asticella, creando dal nulla un’inesistente rivalità con i Nirvana di Kurt Cobain. Il metro di paragone era oggettivo, cioè le copie vendute: “Nevermind” aveva battuto “Ten”, relegando il disco dei Pearl Jam al ruolo di “capolavoro minore”, ma il secondo atto – andato in scena nel ’93 – vedeva prevalere nettamente Vs., che sfiorando il milione di copie schiacciava In Utero, fermo a nemmeno 200 mila.

Mentre Vedder e soci si chiedono che senso abbia azionare in ogni istante il tritacarne mediatico nel quale sono finiti, ecco altre rogne bussare alla porta in modo altrettanto simpatico. In poco tempo i quattro vengono a sapere che i prezzi dei loro dischi sono insostenibili per i fans della prima ora, quei ragazzi senza né arte né parte che si immedesimano in testi così oscuri e sofferti. Stesso discorso vale per i biglietti dei loro concerti, sui quali oltretutto pende una causa contro Ticketmaster, accusata di bagarinaggio. Nondimeno, i network televisivi e radiofonici chiamano un giorno sì e l’altro pure, pretendendo di porre domande di qualsiasi tipo. Come se non bastasse, la band sta vivendo un periodo di tensione interna a causa delle intemperanze del batterista Dave Abbruzzese: non è quindi il caso di esporsi come virtuoso modello di convivenza. Ma il più pesante rospo da ingoiare, inevitabilmente, è il suicidio di Kurt Cobain, avvenuto ad aprile del 1994, nel bel mezzo delle registrazioni che i Pearl Jam stavano portando faticosamente avanti – causa tour di “Vs.” – tra Seattle, Atlanta e New Orleans.

Durante quel tour, in un mercatino dell’usato Eddie Vedder si imbatte casualmente in un libretto dell’800: dentro ci sono consigli pratici su come affrontare la vita, tra la cura del corpo e quella della mente. Contiene però tutta una serie di indicazioni basate su credenze desuete, dato il periodo di pubblicazione, se non addirittura smentite totalmente in epoca successiva. Per lui, tuttavia, quello è un segno del destino: ciò che stringe tra le mani è l’anello di congiunzione tra il passato e il futuro, tra la vita e la morte, tra ciò che era e ora non è più. Il nuovo disco si intitolerà come quel libretto, “Vitalogy”.

In un’epoca in cui parole come vinile, concept album e genuinità sono state violentate e spazzate via a colpi di dollari dalla società dei consumi, i Pearl Jam prendono a sberle il sistema capitalista. Attraverso la musica, si riappropriano dei loro spazi ancestrali facendo beffardamente leva sulla popolarità di cui godono. Decidono di distribuire il disco inizialmente solo sul vecchio formato, pubblicando il CD alcune settimane più tardi. Riguardo alla presenza mediatica, comunicano alle varie agenzie che non hanno voglia di perdere tempo tra radio, programmi televisivi e interviste sui giornali: saranno loro a comunicare modi, tempi e voglia di farlo. La ciliegina sulla torta di un lavoro così meravigliosamente inusuale è il booklet, nel quale Vedder pretende che ci sia la riproduzione del libretto che ha dato il titolo all’album.

I 14 pezzi di “Vitalogy”, dal punto di vista musicale, offrono il più ampio repertorio che una rock band sia in grado di proporre: dentro ci sono bombe ritmiche, mid-tempo, struggenti ballad e una tripletta di incisioni apparentemente fuori da ogni logica. Ma al di là degli elementi – pur validi – di hard rock, metal, psichedelìa e songwriting, che comunque lo rendono un lavoro di altissima qualità anche ad un ascolto superficiale, il punto centrale è un altro. La vera essenza di “Vitalogy” sta nel suo significato intrinseco, nell’obiettivo pienamente centrato di comunicare un tutto attraverso le canzoni, che ne rappresentano singole parti. Sta nel filo conduttore che attraversa l’album: quella linea sottile, ma infinita, che separa la vita dalla morte.

Il disco inizia parlando di suicidio (Last Exit) e termina con Immortality, velati riferimenti all’anima dell’amico Kurt. Nel mezzo c’è un intero mondo, il loro mondo, che attraverso Spin Of The Black Circle parla di dischi, preferendo il vinile al CD. Con Not For You Vedder racconta di quanto sia difficile gestire la celebrità, nel contesto di una società usa e getta (Whipping e Corduroy) dove prevale un edonismo senza sbocchi: è lì che Eddie dà il meglio di sé, scrivendo un testo che trasuda rabbia dopo aver visto il suo giubbotto, roba da pochi dollari, venduto in una boutique di lusso solo perché ormai era di moda. La naturale reazione a questo stato di cose è canticchiare in modo ossessivo Pry, To, ripetendo fino alla nausea che “privacy is priceless to me”.

Tra i volutamente sconclusionati esercizi strumentali e vocali di Bugs e Satan’s Bed, due perle che raccontano fino a che punto i Pearl Jam avessero intenzione di spingersi con il produttore Brendan O’Brien e quelli della Epic, c’è tempo anche per tirare su una bella badilata di ricordi d’infanzia, che attraverso Better Man raccontano in modo crudo e veritiero la vicenda paterna di Vedder.

L’ultima traccia, l’inspiegabile Hey Foxymophandlemama, That’s Me, è un viaggio nel tempo in una personalissima chiave di lettura a firma Pearl Jam. Il capitolo conclusivo di questo capolavoro di genialità made in Seattle guarda avanti e dirime la questione riguardante il batterista, dal momento che Dave Abbruzzese – comunque presente nelle registrazioni di “Vitalogy” – è da considerarsi licenziato. Per assestare gli ultimi colpi di bacchette sulle pelli viene ingaggiato Jack Irons, che ha appena lasciato i Red Hot Chili Peppers e che resterà con la band fino al 1998. E se qualcuno ancora non crede al destino che incombe sotto il sole della Città di smeraldo, vada su Google a cercare chi, all’inizio del biennio d’oro, consegnò a Eddie Vedder le demo di uno sconosciuto gruppo che cercava un cantante.

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