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Skullcrusher – Quiet The Room

2022 - Secretly Canadian
songwriting

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Tracklist

1. They Quiet The Room
2. Building A Swing
3. Whatever Fits Together
4. Whistle Of The Dead
5. Lullaby In February
6. Pass Through Me
7. Could It Be The Way I look At Everything?
8. Outside, Playing
9. It’s Like A Secret
10. Sticker
11. Window Somewhere
12. (Secret Instrumental)
13. Quiet The Room
14. You Are My House


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La nostalgia della casa in cui si è cresciuti è un sentimento diffuso dopo i trent’anni, specie se si tratta di un luogo non più raggiungibile. Non serve una laurea in psicologia per immedesimarsi: i ricordi della nostra infanzia sono i più profondi che abbiamo. È tangibile nei malati di alzehimer,  per i quali le ultime esperienze che cedono all’oblio sono i giochi per strada, il quartiere, i genitori.

Per Helen Ballentine, aka Skullcrusher, la separazione dalla casa d’infanzia avviene nella tarda adolescenza e coincide con una situazione non semplice, la separazione dei suoi. In quella casa, nello stato di New York, da bambina aveva incubi ricorrenti di un volto sfocato che vedeva attraverso la finestra, che l’avevano portata a credere fortemente nell’esistenza di fantasmi.

Ad anni di distanza e con una buona carriera musicale avviata attraverso tre EP prodotti dalla Secretly Canadian (la quale produce un po’ di indie americano come Yeah Yeah Yeahs, Suuns, Porridge Radio, e tanto interessante cantautorato e alt-folk di provincia tra cui Damien Jurado, Scout Niblett, Jens Lekman e la buonanima di Jason Molina), Skullcrusher decide di concentrare l’inquietudine cumulata a seguito di questo abbandono nel suo disco d’esordio, “Quiet The Room“, con l’obiettivo di portarla a catarsi e guardare al passato con serenità. Una scelta abbastanza anomala per una cantautrice uscire con un concept come primo disco, ma d’altro canto si era già presentata in maniera adeguata con i suoi esordi, in particolare l’ultimo EP “Storm In Summer” (2021) ne aveva confermato le capacità di scrivere canzoni trascinanti e accorate assimilabili al genere folk per l’ossatura di chitarra acustica o di banjo.

Le motivazioni dietro questo disco richiedono di privarsi del superfluo: Skullcrusher si riduce all’essenziale anche attraverso l’immagine esteriore, presentandosi coi capelli corti, mentre a livello musicale elimina la sezione ritmica. Restano nelle registrazioni e nei live il chitarrista Noah Weinman e le sorelle Camellia e Odetta Hartman agli archi. La scrittura dei pezzi si basa su uno schema sempre identico: brani brevi che partono da un giro di acustica o di piano, aprendo la strada alla sua voce per lo più sussurrata, per poi implodere in destrutturazioni slowcore che a volumi più alti risulterebbero shoegaze. In questo ricorda le ultime prestazioni dei Low (in particolare “Double Negative”). Altre fonti d’ispirazione si possono cercare nel percorso passato e presente di Sufjan Stevens, dall’uso del banjo al concept dalla vena intimista ed in “Inner Song” di  Kelly Lee Owens per i temi trattati e i testi (quest’ultimo riferimento per dichiarazione dell’artista stessa).

È uno di quei dischi che non arriva al primo ascolto, inizialmente può risultare ripetitivo e a tratti noioso. Cambia tutto nel momento in cui si entra in sintonia con l’autrice ed a intravedere il percorso che vuole disegnare, tra i giochi all’aperto di Building a Swing, il momento dell’addio nel più ritmico singolo Whatever Fits Together, e l’incubo ricorrente, descritto finemente in Pass Through Me. Più il viaggio di introspezione si fa profondo, più aumenta l’intensità delle decostruzioni, che toccano il loro apice in Sticker. Le parole si riducono con lo scorrere dei brani, lasciando spazio a tracce interamente strumentali. They Quiet The Room, penultimo pezzo, chiude la sequenza di ricordi e prelude alla catarsi finale: You Are My House è la canzone senza la quale questo disco non avrebbe senso, o comunque ci lascerebbe con un senso d’incompiutezza. Con pochi versi Helen descrive in cosa consiste il suo legame con la casa, e realizza che ormai non è più un luogo fisico ma uno stato mentale che porterà con sé ovunque ella sia.

Da quest’album, deduciamo che Skullcrusher non è un bluff da singolone, ha una propria identità d’artista e probabilmente sentiremo ancora parlare di lei, specie se uno dei pezzi di questo disco otterrà una cassa di risonanza tramite qualche film o qualche serie; più di una traccia si presterebbe per colonne sonore. Inoltre il disco che esce in autunno, la stagione più adatta ad affrontare le proprie malinconie e a dare loro un significato.

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