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Black Ox Orkestar – Everything Returns

2022 - Constellation
avant folk / klezmer

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Tracklist

1. Tish Nign
2. Perpetual Peace
3. Oysgeforn / Bessarabian Hora
4. Mizrakh Mi Ma'arav
5. Skotshne
6. Viderkol (echo)
7. Epigenetik
8. Moldovan Zhok
9. Lamed-Vovnik


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Quando, ormai un’era geologica fa, mi ritrovai per mani e orecchie il primo album acquistato di John Zorn entrai in un mondo a parte, fatto di avanguardie di ogni speme possibile ma anche di tradizione, qualcosa che affondava radici secolari in terre millenarie. Da quel momento ebbi modo di approfondire così il klezmer e tutto il jazz che attorno ad esso ruotava che altro non era che una naturale evoluzione della musica sacra ebraica. Più forte e grandioso suoni, più Dio potrà ascoltarti.

Sempre in quel momento, mi imbattei nei Black Ox Orkestar, una costola dei Godspeed You! Black Emperor (essi stessi esperti conoscitori del folklore), che faceva parte proprio di quella realtà e lo ben dimostrava con il disco capolavoro ”Nisht Azoy”. Da quel momento in poi la band si è data alla macchia e, d’altro canto, non è necessario che realtà di questo tipo sfornino dischi a nastro, e quindi di anni ne sono passati quindici, tanti ce ne sono voluti a Thierry Amar, Jessica Moss, Scott e Gabriel Levine per dare degno seguito a quell’album gigantesco, che era il loro secondo.

Il turbine poliglotta che va ad abbattersi su “Everything Returns” (francese, yiddish, ebraico, inglese, tedesco e arabo) è sostanzialmente ciò che deve essere per descrivere il nostro mondo, in completa connessione, anche quando i temi trattati sono quelli dell’oppressione che si manifesta in ogni angolo del pianeta e che Amar e sodali prendono a ispirazione per dar vita a musica della diaspora che si adatti alla descrizione del potere costituito che demolisce ogni forma di protesta o libertà. Una cascata letteraria in cui il linguaggio è poiesi della lotta, frammento dell’amarezza di un cuore sanguinante, con elementi folk distesi dalle voci di Amar e Moss che si intrecciano a contrabbasso e violino, come in perpetua discesa nelle ombre alla ricerca di luce, un languore quasi post-rock intagliato in un legno antico come il mondo, tra ballate dell’entroterra mitteleuropeo e affacci sul Mediterraneo.

Corde che si rincorrono squillanti tra percussioni echeggianti nel vuoto del deserto della realtà che subiamo ogni giorno in un, per l’appunto, eterno ritorno che sembra non volerci lasciare liberi e che viene tradotta in elegia tradizionale in odor di epicità e, specchiata, in un minimalismo etereo che si allontana dall’Occidente con un frullare di ali grigie.

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