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Back In Time

“John Lennon / Plastic Ono Band”: John Lennon com’è veramente

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È il 10 aprile del 1970 quando il Daily Mirror, storico tabloid a trazione laburista, titola in prima pagina, a caratteri cubitali: “Paul quits The Beatles”. Di spalla campeggia il faccione dell’ormai ex bassista dei fab four, mentre al centro il titoletto accenna a profonde divergenze gestionali: è la fine della storia e l’inizio della leggenda. Riavvolgendo sia pur di poco il nastro, l’ultimo biennio di vita del quartetto di Liverpool è stato parecchio movimentato, lo scioglimento della band rappresenta l’ultimo, ovvio capitolo. Per arrivarci, tuttavia, bisogna mettere in fila alcuni fatti.

Partiamo dal presupposto che il periodo storico è già di per sé turbolento: nel Regno unito i principali movimenti sessantottini riguardano gli studenti – i cui rappresentanti protestano contro l’aumento delle tasse universitarie per gli stranieri – mentre sul piano sociale i temi più importanti sono l’abbassamento della pressione fiscale e la fine dell’imperialismo occidentale. Uno dei punti chiave del dibattito è la guerra in Vietnam, che tra i sudditi di Sua Meastà (come nel resto d’Europa) suscita una protesta che sfocia nell’obiezione di coscienza da parte di un numero di giovani via via crescente. Ma l’occasione è propizia anche per sensibilizzare i cittadini su temi non meno importanti, come il razzismo, che in Sudafrica già da diversi anni è codificato nell’apartheid.

I Beatles sono reduci dall’esperienza in India, conclusasi in modo non proprio entusiasmante dal punto di vista umano ma foriera di diversi brani finiti nel White Album, in Abbey Road e in Let It Be. Lo scopo di quel viaggio avrebbe dovuto essere la conoscenza della meditazione trascendentale, tuttavia al ritorno in Inghilterra iniziano a volare gli stracci. La prematura (e tragica) morte di Brian Epstein rivela tutta l’impreparazione della band nel mandare avanti Apple, la loro etichetta discografica: dopo diversi tentativi con impresari più o meno quotati, l’incarico viene affidato a Allen Klein, già manager dei Rolling Stones, decisione dalla quale Paul si dissocia rifiutandosi di firmare il contratto.

La posizione di Macca all’interno del gruppo è perfettamente simmetrica rispetto a quella di John Lennon: entrambi addebitano all’altro il ruolo di leader non autorizzato, tanto che quel titolone del Daily Mirror, col passare del tempo, assume sempre più i connotati di una malcelata separazione consensuale. Infine c’è Yoko Ono, fresca di matrimonio con John e la cui posizione all’interno del gruppo non ha contorni ben delineati: molti, tra addetti ai lavori e fans, ancora oggi indicano lei come una delle principali cause dello scioglimento dei Beatles. Nello specifico, la spettacolarizzazione delle esistenze – singole e di coppia – di John e Yoko aveva ben presto raggiunto livelli inaccettabili per Paul, George e Ringo.

Al di là delle opinioni personali e degli inevitabili schieramenti, con i Beatles non ancora ufficialmente sciolti, i futuri coniugi Lennon pubblicano due album diametralmente opposti rispetto agli standard dei fab four. Tra il 1968 e il 1969 escono infatti Unfinished Music No. 1: Two Virgins e Unfinished Music No. 2: Life With The Lions. Sono dischi di pura avanguardia, ma molto diversi tra loro. Il primo è totalmente confusionario in termini sonori e di confezionamento. Da questo punto di vista appare ancor meno sensata – se non addirittura di cattivo gusto – la copertina che ritrae i due completamente nudi. Il secondo capitolo rappresenta uno snodo fondamentale per lo scorcio di vita immediatamente successivo, la perdita per aborto spontaneo del primogenito della coppia. Dopo poco i due si sposano e utilizzano gran parte delle registrazioni per il successivo Wedding Album, una celebrazione della loro cerimonia, volutamente amplificata dal punto di vista mediatico al fine di sensibilizzare l’umanità sul tema pacifista.

È un passaggio, un rito obbligato che porta la coppia a riappropriarsi di sonorità conformi alla melodia innestata sulla forma canzone. Per John e Yoko è tempo di formare un vero gruppo, elaborando il concetto a modo loro: la nascente Plastic Ono Band non è un collettivo fisso – come lo erano ad esempio i Beatles – ma un insieme di persone che hanno voglia di condividere musica e temi in armonia con i due fondatori. I primi a raccogliere l’invito sono Eric Clapton, Klaus Voormann (basso), Alan White (batteria) e il vocalist Kim Fowley per il concerto – dalla cui registrazione sarà tratto l’omonimo album – Live Peace in Toronto. È il punto di svolta.

Photo: Richard Dilello

Dopo i clamorosi flop commerciali e di critica, marito e moglie (ma soprattutto John) capiscono che per raggiungere il maggior numero di orecchie sui temi a loro cari devono utilizzare un linguaggio semplice, unito a una musica orecchiabile. Complici le proteste dei movimenti pacifisti americani con cui nel frattempo era entrato in contatto, Lennon si reca per un periodo di tempo a New York, dove conosce lo psichiatra Arthur Janov. Si sottopone ad alcune sedute della sua innovativa teoria definita primal scream, secondo cui per combattere i propri traumi bisogna regredire, eliminare le difese psicologiche che ogni essere umano inizia ad innalzare fin dalla sua nascita. In quelle sedute John ripensa alla causa dei suoi tormenti:

Mother, you had me / but I never had you
[…] Father, you left me / but I never left you

Basterebbero queste due frasi di Mother – strarting track di “John Lennon / Plastic Ono Band”, uscito otto mesi esatti dopo quel titolo del Mirror – per strappare l’anima dal petto di qualunque essere umano. Frasi semplici, universali, che in meno di venti parole racchiudono la storia dei suoi primi trent’anni di vita. Ci sono l’abbandono del padre, l’affido a zia Mimi, che ritiene sua madre incapace di crescerlo; la morte di quest’ultima quando John, diciottenne, aveva appena ricominciato a frequentarla. Julia fu investita nel 1958 alla fermata del bus da Eric Clague. Una tragicomica sorte, anni avanti, assegnerà quel portalettere al distretto di cui faceva parte la casa di Paul McCartney, indirizzo di riferimento per la corrispondenza dei fans: da assassino di Julia Lennon, Eric si trasformò nel postino dei Beatles.

Le registrazioni, arricchite dalle bacchette di Ringo, prendono vita con un funereo rintocco di campane e si concludono con My Mummy’s Dead. Il tema della perdita della mamma si dipana in modo più o meno manifesto successivamente. Il dolore ritorna con Remember, ma si sana almeno in parte con i richiami alla banale vita di tutti i giorni, descritta in Well Well Well. Con Look At Me, su quella falsariga, John si mette metaforicamente a nudo, chiedendo all’amata Yoko di condividere il suo essere.

Perdita implica solitudine, disegnata in Hold On, God e Love. In questo stato di cose a John non rimane che resistere, trovare qualcuno che lotti insieme a lui per darsi forza a vicenda. D’altronde (I Found Out) è inutile credere – peggio ancora abbandonarsi – a religioni, falsi miti e credenze quando nulla apportano alla causa.

Nel suo memoriale, John si sofferma anche sul sistema di elementi (di potere ed economici) che governano l’intera umanità. Lui lo chiama “la macchina”, un meccanismo subdolo che inganna la classe operaia facendole credere di poter assurgere al ceto sociale superiore. Esistono però i Working Class Hero, gente scaltra e incorruttibile, nonostante “they hate you if you’re clever”. Tuttavia, un uomo da solo non può nulla: con Isolation, già all’alba degli anni ’70 Lennon rifletteva e comunicava la sua inquietudine interiore basata sull’isolamento sociale. La droga e lo scioglimento dei Beatles lo avevano alienato dal mondo, ma chi lo attaccava per il suo impegno sociale, o semplicemente perché riteneva importanti solo i gossip che si rincorrevano sulla sua relazione con Yoko, probabilmente era ancora più solo.

La grandezza di “John Lennon / Plastic Ono Band” è riconoscibile da qualunque lato lo si guardi. Musica, testi, copertina: un tutt’uno scarno, essenziale, una radiografia del pensiero di Beatle-John che ha il potere di mostrare al mondo quanto sia maturato sul piano della composizione, della scrittura e della produzione di un album nel quale è addirittura ridimensionata la presenza di un mostro sacro come Phil Spector. “Plastic Ono Band” rivela la vera natura di John, lo mostra e lo racconta per quel che è, scevro dal vincolo che avevano i Beatles di incarnare il mondo in personaggi immaginari. Senza questo scavo nel più profondo intimismo non sarebbe mai stata raggiunta la vetta universale di Imagine, appena dieci mesi dopo.

Ma paradossalmente questi sono aspetti subordinati rispetto al valore sociale di “Plastic Ono Band”, intatto a distanza di più di 50 anni. Guardiamoci intorno: solo nell’ultimo decennio siamo passati attraverso diverse guerre di interesse internazionale, svariate crisi economiche, una pandemia mondiale, la presa di coscienza di essere nel mezzo di un dissesto geologico e climatico pressoché irreversibile; e la cosa peggiore è che chi ha causato tutto ciò – governi e multinazionali senza scrupoli – passa la maggior parte del tempo a scaricare le responsabilità sui cittadini comuni, vittime innocenti di questo scempio globale.

Cittadini che non sono più da tempo eroi della working class, come cantava John nel 1970. Perché a questo mondo è proprio lui che manca, lui che se ne andò nel 1980 sparato da Mark David Chapman, uno squilibrato, un fan troppo accanito, oppure un uomo solo che non capì quanto ancora John potesse dare all’umanità.

Nei corridoi del Roosvelt Hospital di New York c’era la filodiffusione. Un attimo dopo la sua morte, intorno alle 23 di quel maledetto 8 dicembre 1980, da quei piccoli altoparlanti posti agli angoli dei corridoi iniziò a risuonare un vecchio pezzo dei Beatles, la cui frase iniziale è l’inno delle nostre vite senza John:

Close your eyes, and I’ll kiss you / Tomorrow I’ll miss you
Remember I’ll always be true
And then while I’m away / I’ll write home everyday
And I’ll send all my loving to you

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