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BIG IN JAPAN 2022: all’alba guarda ad est – i migliori dischi dell’anno provenienti dal Giappone

Perché fermarsi quando ci si diverte? Sì, insomma, sono arrivato al terzo anno di questa rubrica chiamata “Big In Japan” – mutuato da un pezzo degli Alphaville e/o uno di Tom Waits, a voi la scelta – cui ormai sono legato al doppio filo, quello rosso del destino, a voler usare un cliché, ma in realtà mi viene solo in mente una puntata di “Ranma ½”, perciò sono ben poco poetico e molto scontato.

Meno scontati sono i gruppi che raggranello nelle mie peregrinazioni (vere o presunte, da girovago dei negozi di dischi più oscuri e netrunner del “Neuromante” ma molto più sfigato) durante tutto il corso dell’anno. Mi diverto perché, tra un rewatch di qualche anime ormai datato e l’aver scartato in toto tutti quelli nuovi usciti, se escludiamo quello nuovo dedicato a “Bastard!!” (e vedrete che c’entra anche con la musica), un ripescaggio di romanzi di Matsumoto Seichō (grazie Adelphi) e la rilettura compulsiva del “Japrocksampler” di Julian Cope – mia ispirazione primaria per questo progetto – riesco in qualche modo a filtrare, seppur con difficoltà, le uscite, alcune famose e altre oscure, provenienti dal Paese del Sol Levante e, quest’anno, qualcosa di ibrido. Altre non sono riuscito proprio a trovarle, come “You’re Either Standing Facing Me Or Next To Me” di Keiji Haino & The Hardy Rocks o “dondeiudon” dei pazzi rappusi Dos Monos, venduto solo in tour (probabilmente quello che li ha visti affiancati ai black midi). Ma spero non vi lamenterete. E se lo fate arrangiatevi.

In parole povere preparatevi a partire. L’antipasto è la raccolta di singoli compilata da Adult Swim (sempre svariati passi avanti) e intitolata “Japan Is Loud“. Perché il Giappone è davvero rumoroso e se siete qui già lo sapete.

Otoboke Beaver – Super Champon

(Damnably)

Prendono il nome da un love hotel di Osaka (ma sono di Kyoto) e sembrano nate dai feedback psicotici di Guitar Wolf e Melt Banana che si incontrano nello spazio su una navicella imbottita di acidi ed ecstasy. Accorinrin, Yoyoyoshie, Hiro-chan e Kahokiss covano un demone colorato e impazzito e ne fanno schiudere l’uovo da cui esce “Super Champon”, un fulmine sbroccato di punk rock in cui tempi demenziali, grida, voci sbiellate e violenza elettrica si prendono a braccetto, fanno il girotondo fino a cadere in una spirale dal tocco di intrinseca natura grind, come se dalla copertina di “Suspended Animation” dei Fantômas a cura di Yoshitomo Nara avesse preso vita propria, fosse uscita dal cartoncino uscendo nel mondo a fare bordello, spaccando tutto e appiccando fuoco ai cassonetti per poi riposarsi guardando un anime iper-colorato. Se il mondo guarda al fenomeno Linda Lindas dal punto musicale sta semplicemente prendendo un abbaglio. È alle Otoboke Beaver che deve puntare sguardo e orecchie, prendendosi un bel calcio nel culo. Spiazzante giro di giostra nell’inferno più carnevalesco possibile. Io le ho pescate dalla pagina Facebook del Primavera Sound, Kurt Ballou non so dove ma al chitarrista dei Converge non sono sfuggite e le ha piazzate nella sua lista dei migliori album 2022 di Brooklyn Vegan.

Dir En Grey – Phalaris

(Firewall DIV., SMEJ)

Passati i quattro anni di ordinanza riecco che i Dir En Grey riportano in campo tutto il loro strapotere, versato già a garganella nel gozzo e a forza con “Phalaris”, ennesimo colpo alle tempie. Inizia con dieci minuti di progressioni extreme metal da sturbo: grind, groove, scream, growl, grunt, melodie in tempi dispari che ammazzano sul posto. Poi c’è posto per tutto un viaggio verso l’interno, fatto di imposizioni agrodolci, oscurità romantiche, ustioni industriali, autostrade grindcore in cui si immettono corsie black metal a velocità ingnobili e soluzioni avant-rock a dir poco deliziose. È sempre Kyo a far la parte del leone, con la sua innata capacità di passare un momento per cantante che potrebbe far uscire una hittona Jpop e il momento dopo balzare sul palco a duettare con Barney Greenway e Attila Cshiar. Invasato totale. Ancora una volta i capi del metal allucinato del Sol Levante. Non poteva essere altrimenti.

Petit Brabancon – Fetish

(Danger Crue)

Non mi voglio allontanare troppo da Kyo e dunque ecco i Petit Brabancon. Da un annetto a questa parte il nome era nell’aria e dietro vi si celava un vero e proprio (ugh) supergruppo nipponico. Oltre alla voce dei Dir En Grey il chitarrista dei Mucc Masaaki “Miya” Yaguchi e quello dei Tokyo Shoegazer Kiyomi “antz” Watanabe, il batterista de L’Arc-En-Ciel yukihiro e il bassista dei Novembers Hirofumi Takamatsu. Estrazioni tanto diverse votate ad un’unica, devastante corazzata di pura e semplice ignoranza cosmica, e già lo si capisce dall’orripilante copertina, una roba tipo peggio del debutto omonimo dei Body Count. La base è quella più fetidamente hardcore possibile su cui vengono spruzzate generose quantità di nu metal e, per non farsi mancare niente, incursioni pop e singulti electro toccanti che riprendono una certa poetica, ben presto scalzata da parecchio testosterone e chitarrismo korniano, ma con un’eleganza che mancherebbe a parecchi altri. Ma è solo un attimo e basterebbe la sola Pull The Trigger per cambiare idea. Ah, il master di “Fetish” esce dalle mani di mastro Ted Jensen, ed ecco il motivo per cui suona tanto grosso.

Coldrain – Nonnegative

(Warner Music Japan)

Nell’introduzione parlavo del nuovo anime tratto da “Bastard!!” e fuori per la solita Netflix e lo facevo perché a battezzarne l’opening theme sono i Coldrain. Il quintetto di Nagoya prende un biglietto per Orlando, Florida, e torna ad incontrare il veterano del maranzismo Michael Baskette detto Elvis (già al banco mix con gente che ben conosciamo e amiamo tipo Limp Bizkit, Sevendust e Chevelle) ed eccoli pronti a non tradire le aspettative. Punto primo: se leggete Don’t Speak in scaletta non si tratta di semplice omonimia, è proprio cover della hit suprema dei No Doubt di Gwen Stefani e, che vi devo dire, è pure figa, c’è pure il solo di chitarra flamenca. Non mi credete? Forse fate bene. Punto secondo: “Nonnegative” farà felici tutti quei numetallari se non della prima di sicuro della seconda ora, perché di questo si tratta. Una gragnolata di brani imbevuti di brutalità elettriche, velocità sregolata a doppio pedale pigiato, rallentamenti e sterzate a cavallo di chitarroni e bassoni grassissimi che sfilano al fianco di refrain catchy e zozzaggini urlate a pieni polmoni (in inglese), roba da pogo sì, ma con classe. Chiaro, a questo alcuni di voi penseranno che ‘sto disco sia una schifezza. Errore. È una bomba (se vi piacevano gli Spineshank). Mettete l’elmetto.

Sigh – Shiki

(Peaceville)

Ho sempre visto i Sigh come una vera e propria allucinazione anche in un campo, quello del black metal, che di transizioni anomale è pur pieno da qualche decennio. Li scopro nel 2005 o giù di lì con “Gallows Gallery” e non mi ci schiodo più. Come già dicevo altrove, il metallo nero è questione di radici, anche quando la materia trattata è avant e, giustamente, i giapponesi non ce li vedo a parlare di Odino e terre ghiacciate del Nord, quantomeno non quello di cui potrebbero parlare gli Emperor, e dunque il demone all’interno del quale si nasconde Mirai Kawashima e, dal 2007, Dr. Mikannibal (al secolo Mikai Kawashima) porta la maschera degli Oni e degli spettri della propria terra. “Shiki”, sin dal titolo che nasconde in sé molteplici significati – uno su tutti “tempo di morire” – e dalla copertina che raffigura uno spaventato uomo in vestiti tradizionali seguito da uno spettro di morte (e molto simile alla cover di “Infidel Art” del ’95) è l’ennesimo agglomerato di avanguardia e tradizione con gli strumenti folkloristici che vanno a interpolare la modernità fatta di ombre oblunghe, incunaboli progressivi di settantiana memoria ed elettronica futuribile che si immergono in gotiche asfissie dell’animo tritate all’osso dalla voce maledetta di Kawashima. Ciliegina sulla torta ad accompagnarlo ci sono due pesi massimo del metallo pesante come Frédéric Leclercq (Kreator) e Mike Heller (Fear Factory), alzando l’asticella tecnica un gradino più in alto.

Hinako Omori – “a journey…”

(Houndstooth)

Appoggiamo un attimo qui tutte le chitarre che finora hanno infestato la “classifica” e prendiamo fiato. Immersione è la parola corretta per descrivere al meglio “a journey…”: suoni liquidi che colano dai coni delle casse (o dalle cuffie) figli di un minimalismo lambente ogni lato della stanza in cui viene riversato. A Hinako Omori (nata a Yokohama ma subito trasferitasi assieme alla famiglia a Londra) bastano un Prophet 08, un Moog Matriarch e la sua voce diafana per trasportare l’ascoltatore in un’esperienza fatta di brani che sono meri capitoli di un racconto più esteso, come un nastro sintetico che si snoda in ambienti dilatati, analogicamente spiritali e in movimento ascensionale. Omori è affascinata dalla musicoterapia e la tridimensionalità delle sue composizioni ne riflette lo studio e la registrazione, con gli oscillatori calibrati su determinate onde cerebrali. Musica elegiaca per lenire animi irrequieti e ferite profonde.

Boris – fade

(Fangs Anal Satan)

Trent’anni sono lunghi, per una band sempre attiva, sempre in studio, pronta a comporre e non solo “di presenza” su un palco a drenare i portafogli di fan sbavanti che aspettano un disco che non arriverà mai (vero Rage Against The Machine?). Sono reali e reale è quello che ti sbattono in faccia. Quest’anno, il trentesimo che festeggiano Wata, Atsuo e Takeshi, per l’appunto, hanno sputato fuori tre dischi, uno per decennio, ognuno con una sua identità che poi riflette quanto già fatto ma che tende sempre al presente, se non al futuro. Dopo W e Heavy Rocks (anche in questo caso il terzo della serie omonima) arriva fade. È un disco che si interroga sulla paura, sull’avvento della pandemia (e registrato nel pieno del corso che ha fatto il Covid, nel 2020) e sulle ferite che ha lasciato su mente e corpo ancora fresche e che non si cauterizzeranno tanto presto. Già solo dalla copertina si intuisce che il contenuto sarà di quelli in disgregazione perpetua, un dolore lancinante che si riflette in lunghi bordoni di rumore cangiante, intarsiati di melodiose architetture nascoste, vene d’oro incastonate nella fredda roccia spalla a spalla con oscillazioni strabordanti terrore distorto in piena estasi sludge. Sarebbe un album meditativo ma solo nel caso in cui le anime dei dannati si dilettassero in meditazione giù all’Inferno. Ad un certo punto la voce ultraterrena della chitarrista fa capolino in mezzo alla Gehenna ed è sollucchero puro.

The Routes – Twang Machine

(Topsy Turvy Records)

Qui le cose si complicano. Chris Jack, mente dietro ai Routes è…scozzese. Che ci fa quindi la band in uno spazio riservato alle band giapponesi? È presto detto: il nativo di Kirkcaldy Fife ha passato più tempo nel Kyushu che in patria ed è qui che, assieme a Toru Nishimuta e Masao Nakayama dà vita a questo progetto che affonda le radici nel lercissimo gargage Sixties e tra le onde del surf’n’roll più dickdaleiano possibile. Di quella formazione restano solo Nishimuta e Jack, mentre alla batteria si avvicenda un altro occidentale chiamato Bryan Styles. Ebbene? Nulla, i Routes restano ancorati a Tokyo e alla sua scena di genere e, come nuovo album, pensano bene di prendere i Kraftwerk e, con un trucco di magia nera, farli suonare come i Link Wray. Bestemmia, diranno i più, e invece “The Twang Machine” è un’allucinazione totale, con i cavalli di battaglia dei cyborg teutonici che (asciugati dalle voci) assumono l’aspetto del delirio che rosola sotto il sole a bordo spiaggia. Fa davvero effetto sentire le versioni surfeggianti delle algide The Model, Radioactivity, Tour de France e Autobahn, eppure è un esercizio spassoso e stragodibile. Nella capitale del Sol Levante si vede che le onde di cemento, vetro e neon sono parecchio alte e la chitarra di Jack non fa che aizzarle sempre più, gracchiante e d’acciaio.

MIRA新伝統 – Noumenal Eggs

(Subtext Recordings)

Anche nei MIRA新伝統 Occidente e Oriente si incontrano al crocevia disumanizzante di Tokyo per dare vita a qualcosa di altro, e questa volta non ci sono garage band che tengano. Il mondo che Honami Higuchi e Raphael Leray (parigino trapiantato in Sol Levante nel 2008) è di quelli che si trovano nelle pellicole che prendono spunto dall’irreale realtà che trova fondamento negli scritti di William Gibson. Scomposte alienazioni elettroniche scosse da spasmi deumanizzanti alternano tempi schizoidi a glitch al neon, impulsi destabilizzati in maniera ancor più preponderante se agganciati alla voce di Highuch, aliena in ogni sua connotazione, spezzato lirismo post-umano, un fantasma nella macchina che risale in superficie per raggelare il net-surfer di turno e inchiodarlo alla sua tastiera. “Noumenal Eggs” è solo un EP ma ha tutto il peso di un full length trance extraterreste. Amanti di Matmos, Autechre e nostalgici psy-trance apparecchiate la tavola.

Takuya Kuroda – Midnight Crisp

(First Word Records)

E ora qualcosa di completamente diverso, nel senso che facciamo il viaggio all’inverso. Il trombettista Takuya Kuroda nasce a Kobe e in seguito viene adottato da New York, dove il jazz, soprattutto quello anomalo, fiorisce e pianta radici profonde. Le radici di Kuroda affondano a tal punto che al manager di DJ Premier (non proprio l’ultimo venuto, e se non conoscete i Gang Starr cospargetevi il capo di cenere) il nome del nipponico viene subito in mente quando si sta formando la BADDER band, che è una roba da far esplodere tutte le sinapsi. Il curriculum del ragazzo classe 1980 è ben più lungo, ma questo basta e avanza a introdurlo, perché la mentalità hip hop è parte integrante del suo DNA e “Midnight Crisp” ne è fulgida dimostrazione. Di bestiale, oltre alla capacità compositiva ed espressiva del nostro, che quella tromba la tratta come un cannone caricato a calor bianco, c’è una sezione ritmica spaventosamente prepotente formata dal batterista Adam Jackson e dal bassista Rashaan Carter, che partono per tangenti iper-funkeggianti, mentre Kuroda ci passa sopra come un Concorde oppure trafigge tutti non proprio in punta di fioretto. Quando tutto si fa più morbido, invece, sembra di ballare su una nuvola, ma basta un secondo per portare tutto sul binario progressive/fusion, e lì le cose si fanno ancor più serie, al punto che su Choy Soda Kuroda ci mette pure la voce assieme al trombonista Corey King.

106 – DTP02

(Autoproduzione)

106 is a desktop punk unit by Phew and Dowser N.”. Prego? Desktop punk? Anche noi scribacchini abbiamo di che stupirci, di tanto in tanto. Non siamo noi di solito ad affibbiare agli artisti certi appellativi di genere totalmente a caso? Facciamo però un passetto indietro. Hiromi Moritani, in arte Phew, è stata vista in compagnia su dischi di Otomo Yoshihide, Alexander Hacke (Einsturzende Neubauten), di membri di Can e Boredoms (ed è solo una minima parte del tutto) ma, prima ancora, era alla testa degli Aunt Sally, band art punk di fine ’70. Poi è entrata nel mondo dell’astrazione sonora. Hiroyuki Nagashima invece è Dowser N., dei Dowser, gente che di musica concreta ne sa a pacchi e anche un po’ di più. Insomma, questi due personaggi obliqui si inventano questo genere e in effetti io una definizione migliore non l’avrei potuta dare. Certo, a sentire un brano come Sorede Jyubun e Tobimasu il punk rock viene fuori tutto, in maniera molto Devo ad essere completamente sinceri, poi tutto va a catafascio e si entra in una dimensione lisergica che funziona a prescindere dall’assumere acidi, con quintali di elettrospasmi a pioggia, tutto magnificamente sintetico e slabbrato. Il punk, infatti, è quell’attitudine che non tutti hanno. I 106 invece potrebbero tenere delle masterclass.

Tokyo Shoegazer – Moonworld Playground

(HigherHell Records)

L’amore per i gatti è tradizione, per i Tokyo Shoegazer pare una fissa. Tre dischi su quattro hanno uno di questi simpatici animaletti in copertina, due delle quali quello che pare essere diventato ormai un simbolo per il gruppo capitanato da Kiyomi Watanabe (lo avete già incontrato poco fa nei Petit Brabancon, ma lì il feticcio era un cane) ovvero la testa di un micio dalla cui bocca esce una Fender Jazzmaster rossa. Bene così. Dal nome di battaglia della band già si intuisce a cosa si va incontro, ossia un muro di chitarre alto svariati metri e spesso altrettanti. Forti del nuovo acquisto Rie Fu, classe ’85 e cantante già avviata da tempo, che con la sua voce lambisce le spigolosità dei compagni di viaggio andando completare una crisalide evocativa che rivolge lo sguardo al cosmo, anche quando gli altri pestano duro come forsennati lei resta sospesa, anzi, appesa ad una corda dorata che porta su in cielo e lì ci lascia a vagare nella vastità di un universo fatto di bellezza e ammantato di luci calde e mormorii stellari in bilico tra alternative rock e prepotenza gaze. Non è un caso se i nostri siano apparsi nel tributo ai My Bloody Valentine “Yellow Loveless”, proprio no.

つづく

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