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Retrospettive

Vent’anni senza il signor G: quanto manca oggi l’ironia garbata di Gaber?

Il primo giorno dell’anno porta sempre con sé una certa malinconia. Vent’anni fa l’affaccio al nuovo anno fu ancora più triste per tutti quelli che si ritrovarono improvvisamente orfani di uno dei massimi rappresentanti culturali e musicali dell’Italia, Giorgio Gaber.

Il primo gennaio 2003, all’età di 63 anni, il signor G ci lasciava dopo una lunga malattia, nella sua casa in Toscana. Con lui la moglie Ombretta Colli e la figlia Dalia. Due decenni dopo, la Fondazione Gaber ha organizzato una maratona di 24 ore, dal nome di Tutto Gaber, trasmessa in diretta streaming gratuita, a partire dalla mezzanotte del primo gennaio a quella del due, con filmati non-stop di canzoni e monologhi dei suoi tanti concerti e spettacoli teatrali, tutti montati senza un ordine cronologico.

Fa strano fermarsi e rendersi conto che è già passato tanto tempo senza la sua ironia, il suo sarcasmo garbato, la sua gentilezza. In questi anni si sono succeduti così tanti eventi storici, politici e culturali che viene naturale chiedersi quale disincantata lettura ne avrebbe fatto il signor G. E, di tale lettura (ahimè!) se ne sente tutto il bisogno e la mancanza. Su di lui critici e colleghi hanno riversato valanghe di parole, ritratti commossi, ricordi sussurrati. Hanno scritto tutto e il contrario di tutto. Hanno raccontato del suo naso importante, del suo sorriso timido, delle sue mani nodose, del suo pessimismo soave, della sua schietta sincerità, del suo straordinario carisma teatrale.  

Ma chi era Giorgio Gaber?  

Gaber per me resta un elegante e sorridente signore alla guida di una Torpedo blu. Colto, raffinato, intelligente. Ottimo pensatore e coraggioso provocatore. Un amico a cui poter chiedere: «Giorgio, di questa cosa che pensi? », consapevole del fatto che sarebbe riuscito a dipingere qualsiasi aspetto della vita a tinte di una semplicità disarmante, senza stereotipi o falsi moralismi (detto tra noi, ci vorrebbe un Gaber per ogni epoca!).

Per il mondo Gaber era innanzitutto un intellettuale, che iniziò la sua carriera come pioniere del rock’n’roll negli anni ’50. Unendo poi l’amore per il jazz – adatto ad esprimere meglio atmosfere più introverse –  e l’amore per gli chansonniers francesi – da Leo Ferrè a George Brassens, fino all’attore teatrale Jacques Brel – a doti non comuni di entertainer, diventò uno dei personaggi più amati della musica e della tv. Nasce con lui e con altri artisti come Paoli, Endrigo, Bindi, Conte, Tenco e Jannacci, una scena musicale impegnata, non schierata politicamente e dalla spiccata sensibilità umanistica, alla costante ricerca di note capaci di raccontare la società e i suoi cambiamenti. Gaber, però, resta uno di quei personaggi impossibili da inquadrare o catalogare. Uno spirito libero, un innovatore; Giorgio sperimenta sentieri nuovi e personali, non curandosi di qualsivoglia corrente o moda del momento. Dai suoi testi emerge una Milano crepuscolare, nebbiosa e a tratti amara. Dubbi, incertezze ed evasioni si declinano in scala di grigio, corredate da un linguaggio limpido e diretto, che non suona mai come predica o rimprovero. Con un umorismo fulminante, ma sempre leggiadro ed elegante, Gaber risulta profondo e toccante nella sua semplicità, al pari di artisti come Fabrizio De Andrè, Rino Gaetano o Francesco Guccini, pur in parte allontanandosi dallo stile di questi.

E poi c’è il teatro. All’alba degli anni ‘70 Gaber, insieme al pittore Sandro Luporini, inventa il Teatro Canzone, miscelando musica e drammaturgia. Canzoni e monologhi si alternano leggeri, come in una danza di piume nel vento, toccando tematiche importanti, concernenti l’evoluzione e i cambiamenti della società. Una sorta di predicazione, di vangelo laico che acutamente racconta storie e personaggi, oscillando dalla parola cantata alla parola recitata. Gaber parla al popolo, chiedendosi come si sentano gli individui medi a Far finta di essere sani. Proprio l’individuo diventa la misura di ogni riflessione sulla politica, sula libertà, sull’amore. Giorgio Gaber mette in scena gesti e canzoni. Nel Teatro Canzone, infatti, il coinvolgimento fisico resta una delle caratteristiche fondamentali. Naso, gambe, braccia, smorfie, ghigni, sorrisi: ogni parte del corpo sul palco parla in una gestualità tanto tentacolare quanto espressiva.

Il canzoniere di Giorgio Gaber attraversa ben quarant’anni di storia italiana, tra pezzi di vita pubblica e vita privata. Con ironia e sarcasmo, ci ha fatto sorridere nel torpore rallentato di Shampoo, cantando leggero: “una brutta giornata / chiuso in casa a pensare / una vita sprecata / non c’è niente da fare / non c’è via di scampo / quasi quasi mi faccio uno shampoo” o ci ha fatto tremare con brani come Quello che perde i pezzi. Utilizzando l’allegoria del corpo umano, sentiamo le certezze staccarsi e volare via una alla volta: il polpaccio, un ginocchio, il femore, un braccio, il cuore. Ogni pezzo del corpo sottende lo smarrimento dell’uomo nella società: “perdo i pezzi ma non è per colpa mia / se una cosa non la usi non funziona”.  Con Barbera e Champagne abbiamo brindato, per poi incupirci di fronte alla sua lucida analisi politica in Qualcuno era comunista o Destra-Sinistra. Gaber non si schierò mai con nessuna ideologia, appartenenza precostituita o sentimento di massa. Restò un libero pensatore, o come si definì lui stesso “un anarcoide”“ma a scanso di fraintesi, non faccio il polemista per mestiere: cerco solo di capire, di capire come fa la gente a vivere contenta senza la forza vitale di una spinta, di capire come fa la gente che vive senza correr dietro a niente. È vero, sono un po’ anarcoide e pieno di livore”. Nel 2003 venne pubblicato l’album “Io non mi sento italiano, la cui title-track è una definitiva dichiarazione di indipendenza, un inno alla libertà e alla vita in quanto tale, con l’uomo sempre al centro di tutto: “mi scusi Presidente, se arrivo all’impudenza, di dire che non sento alcuna appartenenza”.

Passare in rassegna tutta la copiosa produzione di Gaber sarebbe impossibile, ma come non ricordare “La mia generazione“, ultimo suo album in vita, pubblicato nel 2001. Ritratto in dodici brani del malcostume della società moderna; testamento di programmi e ideali falliti: “ma questa è un’astrazione/ è un’idea di chi appartiene/ a una razza in estinzione”.

Giorgio Gaber fu un intellettuale, pur senza avere una cattedra. Un artista che ha saputo raccontare la cultura di massa, dalla canzone alla televisione, per poi inventarsi un nuovo autentico modo di comunicare, il teatro. Il signor G resta un ibrido inimitabile, a cui pochi possono accostarsi. E dopo vent’annni possiamo ancora affermare che le sue parole mancano, come manca una boccata d’aria fresca in una calda giornata d’estate.

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