Chi ha detto che rock e poesia non possono parlare la stessa lingua, probabilmente non si è mai immerso nell’album “The Raven” di Lou Reed per poter apprezzare la magia di questo meraviglioso connubio.
Pubblicato il 28 gennaio 2003, il disco dell’ex Velvet Underground ci pone davanti l’eterno conflitto tra rock bruciante e potenza evocativa della parola. “The Raven” è un concept album che trae ispirazione dalle poesie e dai racconti di Edgar Allan Poe. All’epoca ne furono pubblicate ben due versioni: una in doppio cd contenente reading e canzoni, per un totale di ben 36 tracce; l’altra, edizione ridotta in un singolo cd, contenente solo alcuni dei reading, The Valley Of Unrest (legge Elizabeth Ashley, Reed alle tastiere), la title track (legge un suggestivo Willelm Defoe) e Tripitena’s Speech (legge Amanda Plummer), per un totale di 21 tracce.
L’embrione del disco è rintracciabile in quello che era stato un più ampio progetto, denominato POEtry, piéce teatrale frutto della collaborazione tra Lou Reed (che ne ha scritto dialoghi, musica e testi) e il regista teatrale Robert Wilson. Lo spettacolo fu rappresentato per la prima volta da attori di lingua tedesca al Talia Theater di Amburgo. Con tali premesse risulta decisamente riduttivo considerare “The Raven” alla stregua di un semplice album rock, pur restando senza dubbio un buon album, ambizioso, vivido e cerebrale. I continui cambi di ritmo al suo interno sembrano slegarlo continuamente, trascinandolo in un vortice caotico. Eppure rimane convincente e geniale (credo di non venir contraddetta affermando che, a personalità come Lou Reed, può essere concessa qualsiasi cosa!).
Se fino a quel momento si era abituati ad un’immagine “metropolitana” di Lou, il ritratto negli scatti in bianco e nero scelti per la copertina, lasciò sicuramente sorpresi. Proprio quegli scatti, infatti, diventano testimoni di un nuovo stadio evolutivo. L’inquietudine di Reed trova un punto di incontro con tutti quei fantasmi già presenti nel cupo “Magic And Loss”, trasformandolo in un narratore complesso, che porta i segni del padre del gothic horror, Allan Poe. Orrore, morte, abbandono vengono indagati attraverso diversi livelli di lettura. Lou Reed non si è semplicemente limitato a musicare i testi di Poe, ma se ne impregna al punto da trarne nuova linfa, nuova ispirazione, reinterpretandoli e, in alcuni casi, riscrivendoli. Le parole di Edgar si intrecciano con quelle di Lou, accompagnate da un vocabolario di puro rumore dove sono evidenti sia l’amore per la scena jazz d’avanguardia della New York degli anni ’60 sia i rimandi allo swing in stile Broadway anni ’40, senza dimenticare tracce di blues, gospel e ballate minimali e intimistiche. Se da un lato potrebbero muoversi delle critiche alla poliedricità strumentale, dall’altro, tale scelta trova ragione nella voluta teatralità e drammaticità del disco.
Il risultato? Scuotere totalmente l’ascoltatore tra lampi di bellezza e zone oscure.
“Ho riletto e riscritto Poe – scrive Reed nel libretto dell’album – per trovare risposta alle solite domande: ‘Chi sono’ e ‘Perché sono attratto dalle cose che non dovrei fare?’ Ho lottato con queste questioni un sacco di volte: l’impulso di autodistruzione, il desiderio di automortificazione. Nella mia mente Poe è il padre di William Borroughs e Hubert Selby. Da sempre cerco di mettere in circolo nelle mie melodie il loro sangue”.
È bene comunque ricordare che questo tipo di esperimento letterario-musicale non è del tutto nuovo nel panorama della musica. Per citare solo qualche esempio, ancora oggi suggestiva resta l’opera “Outside” di David Bowie o “The fall of the house of Usher” di Peter Hammill.
“The Raven”, co-prodotto insieme a Hal Willner, vanta un’ampia cerchia di ospiti: gli attori Willem Dafoe e Steve Buscemi, i musicisti David Bowie, Laurie Anderson, Ornette Coleman, i Blind Boys of Alabama e Anna e Kate McGarrigle, oltre ai consolidati compagni di palco Mike Rathke alla chitarra, Fernando Saunders al basso, Tony Smith alla batteria e Friedrich Paravicini alle tastiere.
All’interno del disco troviamo le splendide riletture di The Bed (sublime il climax degli arrangiamenti) e Perfect Day, quest’ultima affidata alla voce eterea, androgina e sepolcrale di Antony (chiudendo gli occhi, sembra quasi di sentire le sonorità vibranti di Jeff Buckley). Broadway Song richiama alla memoria il jazz di Berlin, mentre Blind Rage si veste di wave-punk. Tra i pezzi migliori sicuramente Burning Embers, col suo crescendo di archi e fiati e la palpitante Vanishing Act, che sapientemente dosa voce, piano e archi. The Valley of the Unrest si stempera su una tela di archi ed elettronica, risultando decisamente adrenalinica. Burning Embers, invece, risulta più fumosa, dai toni blues, che rimandano ad artisti come Tom Waits. Nella vivace Hop Frog, poi, ritroviamo Bowie (scatta sempre quella nostalgia ascoltandone la voce!). All’interno del disco, ritroviamo anche le stesse chitarre distorte e lancinanti già note nell’album “Metal Machine Music”, insieme alla stessa rabbia e allo stesso rock lancinante. Fire Music, infatti, è una totale anarchia di bassi e corde. Sorprendenti, infine, le due nuove ballad, Call on Me e Guardian Angel, le quali sembrano smaltate nei suoni.
“The Raven” è un disco complesso e poliedrico, come poliedrica è stata la carriera di Lou Reed. Un lavoro tanto bello quanto difficile all’ascolto, costruito con le parole, prima ancora che con gli strumenti musicali. Derivativo e personale allo stesso tempo, segna il punto di contatto con Edgar Allan Poe: dissidio lacerante tra il desiderio di sopravvivenza e l’istinto di autodistruzione. Il disco sugella la fusione di queste due anime tormentate e perennemente in bilico (se Poe lo avesse ascoltato, sicuramente avrebbe strizzato l’occhio alla musica del suo conterraneo!). Idee e suoni si rincorrono creando un risultato eterogeneo, avvolgente e intrigante. La musica diventa drammaturgia e regala un’esperienza da vivere a luci spente, distesi sul letto e con le cuffie nelle orecchie.