Impatto Sonoro
Menu

Back In Time

“Under The Pink” e la missione di Tori Amos

Amazon button

La storia del rock è costellata di artisti, generi e sotto-generi, movimenti, interpretazioni e centinata di altri elementi. Ogni protagonista ha il suo vissuto, la sua storia da raccontare con milioni di sfumature e intrecci diversi. Col tempo, ciascuno di essi assume un ruolo, una casella precisa della storia che ne indica un distinto livello di importanza. Passando dagli anni ’80 ai ’90, il cambio di decennio consegna alle masse una generazione molto variegata di artisti: se nel vecchio continente salgono inesorabilmente alla ribalta il britpop, il trip hop e il post rock, gli impulsi provenienti dagli Stati Uniti portano le tenebre del grunge e del nuovo filone industrial, la versione d’oltreoceano di ciò che viene considerato “post” – declinato in slow core – e un’infinita galassia di realtà locali.

Tra i tanti in cerca di una definitiva collocazione nello star system americano c’è Myra Ellen Amos. Figlia di un reverendo metodista e di un’insegnante, nasce a Newton, un paesino del North Carolina capoluogo della contea di Catawba. La composizione della sua famiglia suona già come una sentenza: religione e disciplina sono dogmi inderogabili per Myra, alla quale viene imposta una rigida educazione scolastica e spirituale. Brilla tuttavia soprattutto al pianoforte, tant’è che a soli cinque anni vince una borsa di studio al Peabody Conservatory di Baltimora. E’ qui che la sua vita inizia a cambiare rotta, in direzione tutt’altro che gradita ai suoi genitori.

Già da adolescente i suoi insegnanti non esitavano a definirla prodigiosa, ma il suo istinto di ribellione prendeva sempre di più il sopravvento, facendola arrivare a improvvisare pezzi dei Led Zeppelin o dei Doors durante le sessioni di studio. È uno spirito libero Myra, soprannominata Tori, che in giapponese vuol dire uccello. Tori non è nata per sedere dietro un pianoforte, o meglio può farlo, ma deve potersi esprimere a modo suo, liberare nell’aria i suoi tormenti. L’occasione non si presenta: semplicemente Tori capisce che se vuole inseguire sul serio i suoi sogni deve fare alcune scelte, probabilmente dolorose. Si trasferisce così a Los Angeles, dove con il suo gruppo – i Y Kant Tori Read – inizia a girare proficuamente per i pub della città. 

È qui che le girevoli porte del destino le impongono un nuovo cambio di direzione: al termine di una qualsiasi di quelle serate, a 21 anni Tori viene avvicinata da uno sconosciuto, minacciata con un coltello e costretta a salire sulla sua macchina. In un luogo appartato della metropoli californiana viene stuprata e minacciata di morte, salvandosi solo a causa di una distrazione del suo aguzzino, che uscirà dalla macchina per comprare della droga. In quegli anni pensa di aver ricevuto un duro colpo, ma la sua intenzione di affermarsi nel mondo della musica, paradossalmente, diviene ancora più forte.

Con la Atlantic riesce a pubblicare il disco d’esordio con la sua band, un mattone che vira decisamente verso l’hard rock tanto caro alla ragazza di Newton, ma i dati di vendita sono sconfortanti. Per donarle una nuova dimensione, o forse per punirla a causa dell’errato investimento su di lei, i produttori la mandano nel Regno Unito. In quei mesi non ci saranno eventi scatenanti in grado di riscrivere la storia, come avvenuto in passato: più banalmente, Tori si rende conto di avere tanto da raccontare, una scrittura dapprima terapeutica come una serie di sedute psichiatriche, poi minuziosamente musicata sotto forma di songwriting cupo ma allo stesso tempo sorprendentemente leggero. Dopo un tira e molla con quelli della Atlantic durato un bel po’, nel 1992 esce “Little Earthquakes”, un disco che tra lo scetticismo prima e lo stupore dei discografici poi mette a segno un colpo da oltre cinque milioni di dischi venduti nel mondo.

Nessun segreto dietro un tale successo, Tori è genuina e sincera: con le straordinarie doti canore e strumentistiche a sua disposizione, racconta del tormentato rapporto che ha col padre e con la religione in generale, del suo essere una convinta femminista, della sua lotta – interiore e pubblica – contro gli stereotipi di genere, fino ad arrivare all’episodio dell’aggressione subìta. “Little Earthquakes” è un disco sorprendente e per certi versi clamoroso, molto innovativo, che si pone giusto al centro tra un nuovo filone piano-rock e un trascinante e introspettivo cantautorato. Ma è un presagio, l’anticamera di ciò che accadrà di lì a un paio d’anni.

Prima che quell’anticamera diventi un salone meraviglioso è necessario tuttavia che la storia prenda un altro, l’ennesimo, snodo decisivo. Tori è stressata dal successo, inizia a ritenere insostenibile la sfrenata vita losangelina, laddove il lavoro musicale è travolto dalla miriade di eventi mondani che si susseguono senza soluzione di continuità. Decide quindi di formare un ristretto gruppo di lavoro, capitanato dal suo compagno e produttore Eric Rosse, e partire per Taos, un paesino nel New Mexico, dove ad attenderli c’è una hacienda che giace in mezzo al nulla. 

In un primo momento Tori è persino combattuta se scrivere o meno un seguito di “Little Earthquakes”, ma pian piano qualcosa comincia a farsi strada nella sua testa. È un istinto primordiale, tipico di chi ha la musica incisa a fuoco nel proprio destino. Nuove storie, ricordi del suo passato, messaggi e prospettive si appropriano delle sue mani, cosicché nuove “ragazze” – così chiama le sue canzoni – tornano prepotentemente a trovarla per donarle nuova linfa. È energia pura, endogena, epidermica, che impone l’esplorazione di tutto ciò che abbiamo sotto pelle. Tolto lo strato superficiale, la sostanza di ogni essere umano è di colore rosa, è da questo concetto che Tori trova il titolo al disco: “Under The Pink”.

Bastano i tre minuti e mezzo scarsi di Pretty Good Year per capire in quale dimensione siamo finiti e quale aria si è respirata in quella hacienda durante la composizione del disco. La potenza evocativa – nel testo e nella musica – di God è già uno snodo cruciale, che apre le orecchie quel tanto che basta per far sì che il fascino così minimale e desolato di Bells For Her prenda il sopravvento. Tori è al centro della scena, il connubio tra la sua voce e i tasti del piano detta modi e tempi d’ascolto: chiudendo gli occhi si ha la netta sensazione di essere accanto a lei, sperduti nella remota campagna della provincia meridionale americana a scrivere canzoni e bere caffè.

Il repentino cambio di registro operato con Past The Mission ci conduce dritti verso atmosfere southern, fatte di orizzonti sabbiosi e locali su strada che profumano di legno e whiskey, entrambi opportunamente invecchiati. Locali nei quali ad un certo punto – come del resto per la maggior parte della sua carriera – Tori si ritrova sola con i tasti bianchi e neri che le scorrono sotto le dita: è in questi momenti che la magia fa il giro del mondo, salendo in cielo e tornando a muovere quei martelletti per dar vita a un pezzo come Baker Baker. Al giro di boa c’è The Wrong Band, una composizione ipnotica che strizza l’occhio alla classica: è un’avvisaglia di cosa ci aspetta alla fine.

Uno dei rari momenti in cui Tori si affida a sonorità elettroniche è The Waitress, dominata da drum machine e un bel po’ di riff di chitarra, intervallati dal piano che stabilisce le distanze in mezzo alle saturazioni. Un po’ più avanti, un metro più in là, ecco pronta l’esplosione: Cornfalke Girl è IL pezzo, traino fondamentale che trasforma un ottimo album in uno enorme, quello che da solo (o quasi) regge vendite a sei zeri e che proietta Tori dritta verso quel successo planetario desiderato fin da bambina.

Ma non sarebbe un gran disco se non ci fossero piccole perle disseminate senza un apparente ordine: è il caso di Icicle, che ha dentro un fascino etereo e onirico. E ancor di più lo è Cloud On My Tongue, che ne rappresenta la naturale prosecuzione. Il penultimo capitolo è riempito da Space Dog, che gioca sul bilanciamento tra voce-piano e sonorità eighties. Per congedarsi, Tori sceglie il più incredibile e beffardo dei modi: Yes, Anastasia è una composizione classica, con tanto di archi ad accompagnare il suo monolitico pianoforte. E’ la rivincita sugli insegnanti del conservatorio, che non hanno creduto al suo talento imbottigliandolo in frustranti esercizi, che inevitabilmente hanno tolto tempo al suo saper comporre così sublime. Al contrario, Tori dimostra che rock e classica possono coesistere, e insieme formano una coppia meravigliosa.

I temi toccati da “Under The Pink” sono sostanzialmente gli stessi di “Little Earthquakes”, ma affrontati e narrati da un punto di vista diverso. Se nel primo disco l’urgenza comunicativa era palpabile, nel secondo le parole nascono dopo un respiro profondo, in grado di donare lucidità e maturità espressiva. Sono complementari, possono essere ascoltati insieme, quasi a volerli considerare un doppio LP. Sta di fatto che se “Little Earthquakes” è l’inversione di un’onda sinusoide, “Under The Pink” ne rappresenta il suo successivo picco.

Ed eccola, la casella di Tori nello star system musicale made in Usa. Senza alcuna esitazione e con pieno merito, la rossa di Newton diventa punto di riferimento per migliaia di ragazze che nella vita vogliono cantare i propri dolori, narrare la frustrazione che le avvolge e farsi piccole parti di un unico, universale, inno generazionale.

Piaciuto l'articolo? Diffondi il verbo!

Articoli correlati