1. Hard Livin'
2. Peace Of Mind
3. Echo
4. God Bless The USA
5. Eye
6. Eternal Recurrence
7. Round The Corner
8. Through The Night
9. Anyway I Find You
10. River Flows
Anche con tutto l’impegno, la volontà, il sudore e il sangue del mondo tornare alle proprie origini è difficile per chiunque, o meglio, è complicato suonare esattamente come quando si era più giovani e feroci, capaci di aggredire i propri strumenti con la credibilità che solo il puzzo di gioventù può portare.
Non fanno eccezione di sicuro The Men, che pure in qualche modo riescono nell’intento. Diciamolo subito: qui non troverete né “Leave Home” né “Open Your Heart” e forse manco li cercherete, se li volete tirateli giù dalla libreria e metteteli nello stereo. Quella che troverete è una miscela di ciò negli Stati Uniti nell’era “proto” che fu senza seguire una moda una di quelle attualmente in ballo che fanno tanto impazzire giovani e vegliardi e già solo questo è un punto a favore che rimette nel cassetto tutti i contro del caso o, quantomeno, non li fa guardare dritti in faccia.
La sicurezza è quella della lordura, delle chitarre le cui distorsioni fanno fischiare gli amplificatori (ecco che la produzione può fare la differenza, Travis Harrison lo sa e non pulisce niente di quel che rimane impresso su nastro), dei bassi di cartone, delle batterie dry as fuck e delle voci sguaiate che abbaiano dritto nel microfono quando non cantilenano intonando nenie malate. Si danno un gran daffare The Men a pestare sull’acceleratore di una macchina che non vede un autolavaggio da decenni: se vanno lenti picchiano la fronte contro il pavimento e dal cappello esce l’hard più hard dell’hard (Eye), fanno tappa all’altare di San Iommi (Round The Corner) oltre a quelle ovvie a lasciare ex-voto davanti alle immagini mica tanto sacre di Wayne Kramer (Hard Livin’ e Peace Of Mind, che sono in fondo un pezzo unico, Through The Night) e strane e non troppo azzeccate inchiodate blues (Anyway I Found You).
Al di là di tutte queste considerazioni e rimandi più che ovvi – ma che non tolgono nulla alla forza di quel che Nick Chiericozzi e soci fanno – cosa fa di un disco un disco pienamente funzionante? Il fatto che l’atmosfera sprigionata si adatti perfettamente al “concept” che lo battezza, ché il titolo “New York City” calza e aderisce al sound del quartetto. Ogni nota, ogni assolo, ogni rantolo e ogni fill di batteria trasudano New York da ogni poro e, chiudendo gli occhi, anche chi non è mai stato nella città che non dorme mai vi si sentirà catapultato, ovviamente negli anni in cui il CBGB era aperto e la sudicia clientela entrava e usciva dallo storico locale dandosi delle gran pedate nel culo.
Che questo basti a rinverdire i fasti al vetriolo degli esordi è chiaramente illusorio, ma se si spera di trovare l’urgenza nel nono album in carriera di una band che si è un po’ persa nel percorso sarebbe assurdo, addirittura esagerato. The Men sanno però ancora picchiare duro sotto la cintura, sì, ma come farebbe un gruppo adulto.